domenica 9 dicembre 2018



La memoria del nostro amore


La memoria del nostro amore
non è una reliquia
sopra cui lasciar adagiare 
la polvere del tempo.
La memoria del nostro amore
non è un oggetto donato
da conservare dentro le teche
dietro le vetrine.
La memoria del nostro amore
non è una fotografia sbiadita
in una cornice opaca
da osservare nel giorno
di anniversari andati.
La memoria del nostro amore
non è una canzone
che il vento porta fino a noi
lasciandola struggente echeggiare
nei nostri affranti cuori.
La memoria del nostro amore
sono le nostre tristi mani
che - graffiando le lenzuola -
cercano l'altrui petto 
nel letto vuoto.
La memoria del nostro amore
sono le nostre labbra 
che avide di baci
assaporano l'altrui pelle.
La memoria del nostro amore
sono i nostri corpi 
che si desiderano 
nonostante gli anni trascorsi
ed i destini avversi.
La memoria del nostro amore
sono i nostri cuori 
che all'unisono battono
nonostante le distanze a separarli.
La memoria del nostro amore
sono le nostre immense solitudini
che implorano nuove notti 
da vivere assieme.



Roma, Dicembre 1999




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martedì 27 novembre 2018

La bellezza eterna di un capolavoro - L'idiota di Fedor Dostoevskij


La bellezza salverà il mondo. 
Così afferma il principe Miškin indimenticabile protagonista del romanzo L’idiota di Fëdor Dostoevskij, nella cui persona l’autore incarna la bontà e la purezza dell’animo umano, con una fede ed un atteggiamento nei confronti della vita e del prossimo che a detta di molti critici lo fa assomigliare alla figura di Cristo. 
Ultimo discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, il principe Miškin ritorna in Russia dopo un soggiorno in Svizzera in cui si era recato per curarsi dall’epilessia da cui è afflitto. 
Sin dalle prime pagine, inizierà ad incontrare gli altri importanti personaggi che animeranno il libro - Rogožin, il generale Epan?in, Nastas'ja Filippovna, Aglàja -, i cui destini spesso si incontreranno nelle meravigliose pagine del romanzo di Dostoevskij considerato uno dei maggiori capolavori della letteratura russa. 
Pur essendo passati molti anni dopo la sua prima lettura, posso senz’altro affermare come la bellezza di questo libro – di cui ne consiglio vivamente la lettura - rimanga sempre intatta nonostante il trascorrere del tempo.  



La schiuma dei giorni di Boris Vian


Avevo diciassette anni quando sentii pronunciare per la prima volta il nome di Boris Vian. Ascoltavo per caso Ivano Fossati suonare - durante una trasmissione televisiva - la canzone Il disertore. Conclusa l’esecuzione del brano da parte del cantautore, fu specificato come la versione originale di quella canzone pacifista - di cui poi recuperai il testo in francese - fosse stata scritta da Boris Vian nel 1954. Negli anni successivi, ebbi modo di leggere anche altri libri da lui scritti. Così avvenne con la raccolta di poesie Non vorrei crepare - di cui trovai una vecchia edizione della Newton Compton in una bancarella vicino l’università - o con il noir Sputerò sulle vostre tombe, che aveva firmato usando lo pseudonimo di Vernon Sullivan.
E quando qualche anno fa - in prossimità dell’uscita del film Mood Indigo di Michael Gondry - nei giornali si tornò a parlare del suo romanzo, scritto nel 1946, La schiuma dei giorni - da cui il film era tratto e da molti considerato il suo capolavoro letterario -, mi promisi che, appena ne avrei avuto occasione, lo avrei letto. Acquistai l’edizione in commercio della Marcos Y Marcos, un’edizione ben curata che, oltre a presentare un'interessante prefazione di Fossati ed un'invervista a Pennac per postfazione, è corredata spesso da note in cui si cerca di spiegare alcuni giochi di parole inventati dall’autore nella lingua originale, nel caso che a seguito della traduzione avessero perso la propria efficacia.
Ed ora, approfittando di questi giorni di feste, ne ho iniziato la lettura. Lentamente sono entrato nel mondo di Colin - il protagonista attorno a cui ruotano le vicende narrate nel libro -, un giovane benestante che vive assieme al suo cuoco personale Nicolas in un appartamento di Parigi, e che trascorre le sue giornate spesso in compagnia dell’amico Chick - un ingegnere ossessionato dall’acquistare e possedere qualsiasi copia delle opere scritte dal suo filosofo preferito Jean Sol Partre - e la giovane Alise - fidanzata di Chick e nipote di Nicolas.
Ma è l’amore e l’innamorarsi che Colin desidera follemente. E quando durante una festa incontra la bella Chloe, Colin s’innamora subito di lei. Decidono di sposarsi pochi giorni dopo. Colin non bada a spese per organizzare un fastoso matrimonio e decide anche di donare un quarto delle sue ricchezze a Chick così che anche lui possa permettersi di sposare Alise.
Sono molte le immagini surreali che caratterizzano il libro, frutto della fervida fantasia dell’autore che inventa scene di continuo: anguille che fuoriescono dai lavandini per essere cucinate con particolari ricette d'alta cucina; pianococktail che versano cocktails seguendo l’armonia delle note che si suonano sulla tastiera del pianoforte; topi che dimorano nei corridoi e nelle stanze dell’appartamento assieme ai coinquilini con cui a volte conversano a loro modo; marciapiedi che seguono l’umore dei passanti; vetri colorati che si possono alzare nella macchina per velare il plumbeo del mondo attorno; nuvole profumate di coriandolo ed erba di montagna che durante la cerimonia nuziale entrano nella chiesa - dipinta appositamente per l’occasione a strisce gialle e viola.
Ma lentamente l’atmosfera lieve ed ironica del libro inizia a diminuire man mano che Chloe di ritorno dal viaggio di nozze - che li aveva condotti nel Sud della Francia lungo strade dissestate e fangose - si ammala - una ninfea che le cresce nel polmone destro e le rende faticoso il respirare.
E anche quell’appartamento prima maestoso con l’avanzare del tempo e della malattia si restringe sempre più su se stesso. E le splendide vetrate si opacizzano e non lasciano più passare come una volta i vividi raggi del sole. Ed i colori sgargianti con cui la fantasia dell’autore aveva rivestito il mondo del protagonista lentamente iniziano ad incupirsi con l’aggravarsi della salute di Chloe. Ed anche i dobloncioni delle ricchezze di Colin iniziano ad esaurirsi per le impellenti cure di cui necessita Chloe: l’acquisto quotidiano di fiori per alleviare le sofferenze della malattia e debellare la ninfea.
Si avvicina sempre più il tragico epilogo della loro storia d’amore, il cui finale non descrivo né commento per lasciare ad ognuno l’intensità della lettura.
Per certi, mentre leggevo quelle pagine, mi sono tornate in mente le vicende di Jacques e Francine narrate da Henri Murger nella sua Vita da Boheme.
Anche la storia tra Chick e Alise si avvia verso un drammatico finale, dopo che Chick avrà esaurito i soldi donatigli da Colin non per il matrimonio, ma per seguire la sua ossessione di acquistare qualsiasi edizione o cimelio di Partre.
Considerato da molti una tenera favola d’amore per adulti – Queneau lo definì il più straziante dei romanzi d’amore contemporanei - od anche un romanzo d'iniziazione, La schiuma dei giorni è sì un libro sull’amore, sulla sua ricerca e sul suo desiderio, su come esso – una volta trovato - possa cambiare la vita di una persona, sulla gioia di sentirsi innamorati e di poter amare; ma è anche uno struggente libro sulla malattia che restringe il tempo e consuma le energie e le risorse di chi è malato e di chi vive accanto alla persona malata nella speranza di curarla e salvarla.
Forse non è un libro che possa piacere a tutti - considerando la particolarità della scrittura e l’animo surrealista ed anticonformista dell’autore che spesso la contraddistingue -, ma ritengo che sia senz’altro un libro da leggere con attenzione, anche perché sono molti i significati che ad un prima lettura potrebbero sfuggire, ma che persistono nella profondità del libro. Come ha affermato Pennac - nella postfazione che accompagna il romanzo - «un libro di questo calibro può essere letto più volte, nel corso degli anni, traendone impressioni e suggestioni diverse. A diciott'anni prevale la griglia della passione amorosa, a quaranta quella della critica sociale, a sessanta quella del pessimismo della tragedia che tutto annulla.»




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giovedì 8 novembre 2018

La polisemia delle atrocità. Frammento #4


Nel rifiuto di voler pubblicare fotografie ritraenti atrocità di guerre lontane dalla propria terra, quanto c'è in esso il decoro per una vita altrui e quanto invece soltanto la strenua difesa della propria serenità altrimenti da esse scalfita?
Si vuol vietare la diffusione di un'immagine violenta perché essa viola la dignità della persona ritratta, o soltanto perché essa infrange la barriera di cristallo dentro cui vogliamo difendere la serenità della nostra vita al sicuro dai cannoni?
Ci ferisce ciò che quella immagine rappresenta, o a volte porgiamo difese ad essa soltanto perché essa non turbi la nostra incolume quiete?
È vera pietà per i morti la nostra, o soltanto opportuna difesa per chi resta vivo e lontano da quelle atrocità?
Come se il non voler vedere, il non voler mostrare simili morti potesse rendere il dolore delle guerre lontano dalle proprie vite.
Come se il voler negare simili atrocità volesse affermare l'esistenza di un mondo migliore anche quando esso non esiste affatto.
Ma allorquando si decida di negare la visione di simili atrocità, per quanto poi si voglia gridare la propria assoluzione di fronte ai conflitti in atto, la nostra indifferenza farà sì che saremo sempre anche noi coinvolti, e se non come efferati perpetratori, lo saremo come occulti censori o come silenti spettatori.





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La polisemia delle atrocità. Frammento #2





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lunedì 3 settembre 2018

La memoria delle atrocità

«Il XX secolo, l’epoca della politica di massa e della cultura di massa ha preferito affidarsi più all’immagine che alla parola stampata. Questa tendenza a servirsi dell’immagine è sempre esistita in mezzo ad una popolazione in gran parte analfabeta, ma oggi, in seguito al perfezionamento della fotografia, del cinema e del rituale politico, essa è diventata una considerevole fo rza politica», ha scritto Mosse (1). Attraverso le proprie produzioni fotografiche, le nazioni, con le connesse società e rispettive forme di cultura, si sono confessate, rivelate, consegnate alla storia. Se è vero, come ha sostenuto Sontag (2), che fotografare significhi appropriarsi della cosa che si intende fotografare, stabilendo così con il mondo una relazione particolare, che possa alla fine dare una sensazione di conoscenza e perciò di potere, allora le fotografie ci riconsegnano senz’altro l’interpretazione ed il tentativo di appropriazione che l’uomo, nel corso dei secoli, ha messo in atto nei confronti della realtà, mentre vorticosa lo coinvolgeva. La fotografia, a tal punto, è sempre una testimonianza storica. Ma tale testimonianza, spesso, non va intesa nel senso stretto di una descrizione oggettiva di una realtà, quanto semmai in un significato che comprenda l’attestazione di un avvenimento e l’intenzionalità di divulgare una particolare verità all’interno della società. La fotografia, infatti, non è «il trasparente resoconto di un evento», ma è sempre «un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere» (3).
Le fotografie sono frammenti di realtà selezionati dal fotografo, che «sceglie il momento e l’oggetto» della rappresentazione; spesso sono condizionati dalla stessa macchina fotografica, che «detta i limiti dell’inquadratura». Il prodotto stesso di «questa sinergia non può essere una riproduzione oggettiva della realtà» (4).
Pertanto, quando analizziamo una fotografia, non dobbiamo limitarci a raccontare soltanto ciò che è stato rappresentato, ma dobbiamo, nel possibile, svelare anche ciò che è stato volontariamente tralasciato, cercando inoltre di indagare le motivazioni per cui simili scelte di rappresentazione ed esclusione siano state effettuate, interessandoci, come sosteneva Bloch, di «quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita» (5).
Soltanto analizzando la fotografia, riconoscendo in essa ciò che è stato volontariamente escluso, si può costruire un quadro completo della realtà in cui simile rappresentazione è stata completata.
Un’analisi che acquista una notevole importanza nella ricerca dell’intenzionalità che ha generato le fotografie attestanti scene di atrocità durante le guerre. L’atrocità può essere stata fotografata da un professionista per denunciare o testimoniare un episodio storico; può essere stata fotografata da un soldato che ha partecipato all’eccidio, per poi tenerla come un macabro ricordo; può essere stata commissionata dalla propaganda di un governo per orientare l’opinione pubblica; può essere stata fotografata da un civile come lascito alla memoria. Una volta compresa la motivazione dello scatto, è altrettanto importante analizzare l’uso che la società o la politica compie poi delle immagini prodotte sui terreni dei conflitti. La morte, nel momento che esista una conflittualità politica in essere, non si erge da sola come condanna della guerra in se, ma viene spesso utilizzata per effettuare proseliti alla propria fazione (6). Un’ immagine di guerra, così, può essere utilizzata per finalità fra loro del tutto contrapposte, e che ergono a seconda da quale visuale lo spettatore voglia riflettere sull’immagine, o da quale visuale il fotografo voglia stimolare la percezione dell’osservatore. Altre volte, questa dicotomia di messaggi presenti nella fotografia, può derivare da fattori esterni all’intimo rapporto che s’instaura fra l’osservatore e la fotografia, e che vengono appunto posti per influenzare tale comunicazione.
La committenza, il taglio, la didascalia, le modalità di diffusione o di pubblicazione, sono tutti fattori che possono stravolgere ed influenzare la lettura ed il significato di un’eventuale immagine, ed incidere sulla sua fruizione nelle persone. La fotografia, spesso, è nulla più che una vuota immagine se non la compariamo appunto con la sua produzione e con la sua funzione storica, sia sociale sia politica. Se l’immagine ci rivela la personalità e la cultura del fotografo che ha realizzato una simile opera, è senz’altro la didascalia a raccontarci, così, l’intenzionalità politica che ha determinato la divulgazione della stessa immagine all’interno della società. Nel momento in cui ogni immagine può destare sentimenti diversi negli osservatori, la didascalia rappresenta senz’altro il tentativo di indirizzare tali sentimenti spontanei in determinati significati politici, spesso stabiliti in precedenza dal divulgatore dell’immagine.
In tale modo, il testo dirigerebbe «il lettore tra i significati dell’immagine», facendone «evitare alcuni e recepire altri» (7), influenzando così il pensiero critico dell’osservatore.
Un tentativo che assume un’estrema e sensibile importanza, soprattutto nel momento in cui una nazione è coinvolta nel sacrificio e nel dramma di una guerra. Le fotografie che riescono a passare il visto delle censure, vengono spesso pubblicate con didascalie che filtrano il senso reale dell’immagine, per propagandare il messaggio della parte in conflitto.
Le fotografie di morte, così, sono state diffuse per illustrare a volte tesi già precostituite, per giustificare il proprio intento di guerra e contemporaneamente legittimare le proprie azioni belliche, per demonizzare il nemico e fomentare l’odio verso di lui, per ostentare la propria potenza repressiva e l’ordine costituito, per negare oppure ostentare la violenza della guerra, a seconda se i morti appartenessero al proprio esercito od al nemico. La fotografia è stata utilizzata per celebrare l’eroismo della guerra o per urlare le sue atrocità conto l’umanità.
«Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose terribili» (8).
L’affermazione di Sontag sulle reazioni suscitate nelle persone dalle fotografie delle atrocità, in tal senso, illustra l’effimera potenza della fotografia, capace di veicolare i sentimenti delle persone a sostegno o contro determinati conflitti, ma ci deve indurre anche a riflettere sulla tremenda impotenza delle immagini, che si rivela pienamente quando le atrocità della guerra vengono accolte dalle persone come un evento inevitabile. Le immagini di morte possono provocare nello spettatore un sentimento di abitudine, di rigetto, come se «la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l’annulla» (9).
La quotidiana presenza di immagini violente nella società odierna fa insorgere il rischio che la capacità critica dell’osservatore si perda nella rassegnazione di accettare la guerra, come una inevitabile presenza nell’esistenza umana. Ma sarebbe un grave errore assimilare le fotografie della morte in guerra ad un genere iconografico, astraendo dalle condizioni politiche e storiche in cui le specifiche immagini sono state prodotte e diffuse. Per una corretta analisi delle immagini stesse, non si deve incorrere nell’errore di effettuare soltanto uno studio stilistico delle fotografie, soffermandosi principalmente sulla composizione della scena ripresa, ma diviene necessario entrare nel dettaglio della fotografia, scavare nella sua natura, concentrarsi nei particolari, cercare di comprendere quale sia stata l’intenzionalità che ha maturato la scelta di produrre una simile immagine, e soprattutto appurare se l’immagine abbia poi risposto fedelmente alla stessa intenzionalità, o se invece, come spesso avviene, la fotografia non abbia lasciato trasparire dettagli ed elementi che ci portino ad una più profonda conoscenza dell’evento rappresentato.
Le immagini di un conflitto, come ha notato De Luna, sono «momenti di verità», rappresentano «tessere di un mosaico che lo storico deve completare con tutte le informazioni e le conoscenze che gli derivano dal complesso delle sue ricerche e delle sue fonti» (10).
A tal punto, nella miriade di immagini di violenza che la storia ha prodotto, il «contesto rimane quindi indispensabile per decifrare le singole specificità che la storia lascia emergere nella nebulosa di quella che viene chiamata barbarie» (11). Perché è proprio il contesto a rappresentare un «elemento cruciale», non soltanto «per lo scatenamento della violenza», ma anche «per prepararla e renderla accettabile e giustificabile» (12).
È lo stesso clima sociale a far sì che emergano determinati atti di violenza. Sono le «concezioni politiche, le identità ideologiche, le capacità tecnologiche che indirizzano a questa o a quella forma di violenza, che diventa a sua volta indicativa e caratteristica del regime che le mette in pratica» (13). È il contesto, come ha scritto Flores, che fornisce al potere le condizioni adeguate «per legittimare l’uso della violenza, per mobilitare le masse a eseguirla o appoggiarla, per discolparsi in anticipo attraverso propaganda e menzogne che il contesto sembra rendere accettabili» (14).
Ma spesso, il significato di una fotografia, il suo senso, può derivare, oltre che dal mutare del contesto storico, anche a causa dell’avanzare del tempo, che può far rileggere le immagini prodotte negli anni precedenti in un’ottica totalmente opposta a quella iniziale.
Molte fotografie delle guerre del Novecento possono ancora oggi portare il loro drammatico messaggio, soltanto se vi è una nazione capace di comprenderle. D’altronde, le fotografie, se a volte non sussiste un ricordo che le possa animare, divengono vuoti trascrittori, come ha raccontato Sartre, sintetizzando l’assenza di una qualsiasi comunicazione fra la fotografia ed una persona, a causa di un passato che non forniva più ricordi, nella geniale frase «questi afrodisiaci non hanno più alcun effetto sulla mia memoria» (15).
L’assenza di una memoria storica può causare la banalizzazione delle immagini attestanti le atrocità della guerra. La quotidiana fruizione di immagini violente, inoltre, tende ad alimentare la triste assuefazione delle popolazioni alla violenza. La circolazione di fotografie attestanti le violenze di guerra si amplia, il senso di denuncia e critica si assottiglia, la memoria svanisce nell’oblio. A tal punto, le fotografie non sono più testimonianze che indignano le coscienze, ma diventano semplici immagini che, accolte per un attimo dalle persone, poi scivolano via, per essere sostituite dalle immagini successive, in un mosaico di continui orrori, smettendo di «essere una testimonianza per diventare parte della scenografia che ci circonda. Ognuno può scegliere comodamente il frammento di orrore con cui decorare di commozione la propria vita» (16), ognuno può scegliere la propria icona per denunciare la guerra o giustificarla, oppure semplicemente può decidere di rimanere indifferente. Nel momento in cui la guerra viene accettata nella sua ineluttabilità, le atrocità vengono assorbite dalle persone, per essere metabolizzate in fotografie, che nulla possono per interrompere la tragedia in atto.

Note

1. Mosse G.L., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, p. 13.
2. Vedi Sontag S., Sulla fotografia, p. 4.
3. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 40.
4. Vedi Schaber I., Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, pp. 123-124.
5. «Oggi perciò, persino nelle testimonianze più decisamente volontarie, ciò che il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita». Vedi Bloch M., Apologia della storia, p. 69.
6. «Per i militanti, l’identità è tutto. E ogni fotografia attende d’essere spiegata o falsificata da una didascalia. Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre nei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte». Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 9.
7. Proprio discorrendo relativamente al testo che accompagna la fotografia stampata, Barthes ha rivelato come esso costituisca «un messaggio parassita, destinato a connotare l’immagine, cioè a “insufflarle” uno o più significati secondi». E se spesso il testo apposto accanto alla fotografia «non fa che amplificare un insieme di connotazioni già incluse nella fotografia» altre volte, il testo diviene di primaria importanza nello studio dell’uso della fotografia, in quanto esso «produce (inventa) un significato interamente nuovo e che viene in qualche modo proiettato retroattivamente nell’immagine, al punto da sembrare denotato». Considerando che ogni immagine è polisemica, Barthes sosteneva che essa «implica, al di sotto dei suoi significanti» una «catena fluttuante» di significati, che «il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare». A questo punto, «in ogni società si sviluppano tecniche diverse destinate a fissare la catena fluttuante dei significati, in modo da combattere il terrore dei segni incerti: il messaggio linguistico è una di queste tecniche». Vedi Barthes R.,L’ovvio e l’ottuso, pp. 15-17 e pp. 28-30.
8. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 11.
9. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p.26.
10. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. XXVI.
11. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. 63.
12. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
13. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 55.
14. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
15. Vedi Sartre J.P., La nausea.
16. Vedi Pérez-Reverte A., Il pittore di battaglie, p. 17.