domenica 24 settembre 2017

L'uomo che dovevo uccidere - Capitolo Uno


Chi mi lesse la mano - una ragazza dagli occhi scuri nell'alba di un nuovo anno - mi predisse con voce triste che per me l'arte sarebbe stata un ozio e l'amore un sofferto vizio, e che la mia vita sarebbe stata breve come doloroso ne fu l'inizio.
Ma chissà se quella ragazza aveva intuito, fra le linee della mia mano, il disegno del destino che mi avrebbe reso di professione un assassino.
Tutto ebbe inizio in una sera di dicembre.
Ero seduto al bancone di un pub, bevendo un bicchiere di rum, quando qualcuno dietro di me pronunciò il mio nome:
«Jack... Jack Settano! Sei tu Jack, vero?»
Mi voltai verso quella voce. 
Un uomo si avvicinò alla mia sedia con fare discreto. 
Lo osservai per qualche minuto senza riuscire a dargli un'identità.
Soltanto dopo che l'uomo disse di chiamarsi Marcus, riconobbi il suo volto.
Ci eravamo conosciuti ai tempi della guerra.
Non avevo ricevuto medaglie d’onore il giorno in cui avevo ucciso il tenente.
Era una mattina di maggio. 
Eravamo entrati nel villaggio nelle prime luci del mattino.
Avevamo l'ordine di sparare a qualsiasi ombra che si muovesse, a qualsiasi respiro che fremesse nell'oscurità.
Avevamo l'ordine di uccidere tutti, prima che fossero loro ad uccidere noi.
Una donna si era affacciata da una porta.
Un soldato le aveva scaricato addosso tutti i proiettili.
La donna era caduta esanime a terra.
Fra le braccia reggeva un bambino e nessun'arma.
Nessuno ci aveva detto che c'erano soltanto donne e bambini in quel villaggio sperduto.
I guerriglieri erano lontani dalle proprie case.
I guerriglieri erano a combattere nella foresta e sulle alture.
Gli abitanti del villaggio, allarmati dagli spari, erano usciti dalle abitazioni.
Il terrore si era impadronito di quei volti. 
Qualcuno era rimasto immobile sull'uscio ed aveva iniziato a piangere e pregare.
Qualcuno aveva iniziato a correre senza mai voltarsi dietro, per non vedere la morte balenare sui nostri elmetti sporchi di fango, sulle nostre divise macchiate dall'altrui sangue, sui nostri anfibi che la vita andavano furiosamente calpestando.
Qualcuno era divenuto un facile bersaglio ed era caduto sotto le raffiche dei proiettili.
Le loro vesti erano giocate ai dadi.
Le loro vite erano scolpite sulle armi.
Una tacca di coltello incisa lungo la canna del fucile per ogni corpo ucciso.
Le case del villaggio erano in fiamme.
Il fuoco aveva attecchito sui tetti ed il fumo nero oscurava il cielo.
I civili ancora in vita venivano spinti con forza verso una desolata radura, che era solita fungere da piazza centrale nei giorni di festa e nelle celebrazioni religiose, ma che in quel dannato giorno era diventata un luogo di morte.
Venivano fatti sistemare in fila sul ciglio di una fossa comune che alcuni soldati stavano intanto scavando.
Una volta avvenuta la fucilazione, i loro corpi vi sarebbero stati gettati dentro per poi essere coperti da cumuli di terreno.
Sarebbero rimasti sepolti in quell'oscurità fin quando qualcuno, che fosse passato di lì, non li avrebbe scoperti e recuperati dall'oblio.
Quel giorno io ero stato assegnato al plotone di esecuzione.
Avevo gli occhi annebbiati dalle droghe che ci avevano somministrato.
Una morsa di orrore si stava lentamente impadronendo di me.
Davanti a noi non avevamo soldati armati che avevano deciso di combattere, consci di quello a cui andavano incontro, consapevoli che il morire fosse un rischio del mestiere.
Davanti a noi avevamo soltanto civili inermi, vittime di una vile rappresaglia, condannati a morire soltanto perché ritenuti colpevoli di essere nati e di vivere in un villaggio che il presidente di un'altra nazione aveva dichiarato nemico.
Non avevo mai creduto che in guerra ogni atto ed ogni mezzo fossero sempre giustificati dal mero fine di vincere la guerra stessa. 
E non avevo alcuna intenzione di essere in alcun modo complice di quell'efferato crimine di guerra che si stava perpetrando in quel momento.
La voce del tenente - che ci spronava a sparare senza pietà - aveva coperto le urla dei feriti.
«Mirate al cuore! Mirate alle viscere! Mirate per uccidere! Che alla salvezza dell’anima poi ci penseremo noi!»
Avevamo puntato i nostri fucili per essere pronti a sparare.
Le madri avevano stretto i bambini tremanti ai propri seni.
Come se la loro pelle e le loro ossa li potesse proteggere dai proiettili.
Il tenente aveva impartito l'ordine di fare fuoco.
I soldati accanto a me avevano sparato contro i civili che erano caduti al suolo come fuscelli sotto la grandine.
Io avevo mirato contro il tenente che aveva ordinato di sparare.
Avevo sparato dritto al suo cuore ed avevo abbassato gli occhi.
Avevo lasciato cadere il fucile a terra.
Il sangue scivolava sotto i miei anfibi.
Ero stato subito arrestato.
L’insubordinazione non era ammessa. 
La sua esistenza doveva essere negata.
La ribellione era un fiore che doveva essere estirpato prima che potesse germogliare negli animi fecondi. 
Meglio il gesto inconsulto di un folle nichilista che l’atto di insubordinazione di una coscienza disubbidiente.
Perché la follia esiste in tutte le persone.
In qualcuno è poesia.
In qualcuno è violenza.
In qualcuno è arte.
In qualcuno è asfissia.
A volte, essa dorme placida come un cucciolo sul ventre materno.
A volte, invece, essa urla e freme sotto la pelle fin quando non esce e graffia. 
Con unghie acuminate essa graffia la vita.
Con occhi come diamanti essa taglia la notte. 
Ed io ero stato giudicato un folle.
E nella solitudine di una cella ero stato recluso.
Per non contagiare gli altri soldati. 
Per essere di monito agli altri soldati.
Ero rimasto prigioniero per un tempo immemore. 
Non sapevo quando sarei stato condotto al patibolo.
Avevo perso il conto delle ore e dei giorni. 
Soltanto la sottile luce della luna, che scivolava attraverso le spesse grate della finestra, scandiva il trascorrere delle notti.
Era stato Marcus ad aprire la porta della cella la notte in cui la guerra ebbe fine.
Una ferita ancora sanguinante gli solcava il viso. 
Il nemico ormai stava raggiungendo le nostre posizioni.
Gli ufficiali erano fuggiti prima di dare l’ordine di evacuazione.
Marcus mi aveva accompagnato nel cortile. 
La caserma era in fiamme.
Eravamo fuggiti assieme oltre la recinzione del campo.
Prima di inoltrarci fra gli alberi, avevamo abbandonato le divise sul terreno.
Non volevamo correre il rischio che qualche guerrigliero ci sparasse durante la fuga.
Non avevamo mai creduto in quella guerra.
E né tantomeno avevamo mai desiderato di morire per essa.
Se mai si possa essere così fanatici nell'animo da desiderare di morire per una guerra.
Avevamo camminato per ore nella foresta.
Noncuranti delle zanzare che si attaccavano al collo a succhiare tutto il sangue delle vene.
Ci eravamo fermati soltanto quando eravamo giunti ad un porto di un piccolo villaggio.
Era un pontile di legno a cui attraccavano e da cui salpavano i barconi dei pescatori e dei trafficanti di liquori.
Era costato un accendino d'argento il biglietto per il viaggio.
Avevamo deciso di andare ognuno per la propria via.
Avremmo proseguito il viaggio separati.
Nel momento in cui ci eravamo salutati Marcus mi aveva confidato il suo nome.
Il mio nome lui lo conosceva già.
Lo aveva letto su un foglio nello schedario della prigione, scritto accanto al numero della cella in cui ero stato recluso.
Non lo avevo più visto da quell'alba in cui le nostre vite si erano divise su barconi diversi. 
Ero salito sul mio barcone e mi ero sporto dalla balaustra ad osservare quell'oscura acqua su cui sui si specchiava la foresta e le sue ombre.
La ruggine si attaccava alle braccia come se divenisse una seconda pelle.
Il fiume che mi avrebbe condotto lontano da quell'inferno era quieto e silente come un verde serpente che strisciava nelle tenebre del fogliame pronto a mordere la sua preda.
Ogni tanto i cadaveri - di un soldato, di un guerrigliero, di un civile vittima di quella dannata guerra - affioravano in superficie.
Rimanevano qualche minuto a cullarsi nel quieto moto del fiume.
Sembrava guardassero con un ghigno di sfida quel cielo che non aveva avuto alcuna pietà verso di loro.
Né in vita né in morte.
Poi, così come apparsi, improvvisi scomparivano in quell'acqua popolata dai tanti fantasmi di anni di battaglie.
Avevo gettato la mia piastrina di riconoscimento nel fiume.
Sembrava quasi scintillasse, mentre galleggiava nell'acqua resa torbida dal petrolio che fuoriusciva dal vecchio barcone su cui ero salito.
Poi il barcone era partito.
L'onda generata dal motore aveva sommerso nella sua schiuma e nel suo turbine la piastrina, facendola scomparire dalla mia vista.
Lentamente, afferrata dal vortice, la piastrina era affondata in quell'oscuro abisso.
E con essa la mia identità.
Il mio passato.
E forse anche il mio futuro.
La voce di Marcus mi distolse dai ricordi. 
Mi chiese se stessi lavorando. 
Gli risposi che non lavoravo da anni.
Non era facile trovare un lavoro, quando in tutta la mia vita avevo imparato soltanto a sparare ed uccidere.
Non era facile diventare un impiegato, quando le mie mani si erano sempre sporcate di sangue e mai di inchiostro.
Reietto della guerra. 
Un detrito abbandonato a riva dal fiume della storia. 
La condanna alla follia mi aveva salvato dalla fucilazione, ma mi aveva anche condannato all'emarginazione.
Marcus mi chiese se sapessi ancora sparare.
Erano anni che non impugnavo più una pistola.
Non avevo più ucciso un uomo da quando - alla fine della guerra - l'uccidere era tornato ad essere considerato un gesto illegale.
Marcus mi disse che mi avrebbe chiamato per propormi un lavoro, ma avrei dovuto mantenere il riserbo assoluto con chiunque.
Il riserbo non sarebbe stato un problema.
Ormai ero diventato un uomo solitario.
Marcus uscì dal pub.
In fondo al locale alcuni giovani punk danzavano un pogo cantando Last Caress dei Misfits.
In mezzo a loro, appoggiata ad una parete, una ragazza con la maglietta dei Ramones sniffava butano da una bomboletta che teneva nascosta dentro la borsa di pelle.
Finii di bere il rum ed uscii dal pub.
All'angolo della strada, come in ogni ora di ogni suo giorno, Annarella fumava via gli amari anni della sua vita da una sigaretta. 
Qualche passo più in là qualcuno vendeva l'amore. 
Qualcun altro vendeva in bustine la morte.
Mi avviai lungo la strada di ritorno verso casa.
Scivolai nella notte come un riflesso sopra una finestra appannata.
Tremante come un’ombra in uno specchio di pioggia.
Delicate cadevano le foglie sui miei capelli.
Piovendo da alberi, le cui radici possenti spezzavano il cemento del marciapiede, ma i cui rami fragili piangevano frementi le loro foglie rossicce su di me.
Sul mio cammino.
Sulla pelle del mio viso che si rifugiava nel bavero del cappotto a proteggersi dal vento dell’inverno in arrivo.
Arrivai al portone del mio palazzo.
Varcai la soglia dell’androne e salii le scale fino al mio appartamento.
Entrato dentro casa, mi diressi nella camera da letto e, dopo aver aperto la finestra, accesi una sigaretta. 
L’ultima sigaretta della notte.
Volsi lo sguardo verso il palazzo di fronte. 
Sapevo già cosa mi aspettavo di trovare.
La vecchia signora girava su se stessa.
Girava come era solita fare ogni sera.
Da destra verso sinistra e poi di nuovo verso destra.
Girava dentro la stanza davanti alla finestra aperta.
Non importava se contro la pioggia o verso il sole.
Ogni giorno, chiunque fosse passato sul marciapiede ed avesse alzato la testa a guardare i palazzi oltre le rotaie del tram, soffermando lo sguardo verso quel quinto piano di un vecchio palazzo ottocentesco, avrebbe trovato la finestra aperta e la vecchia signora nel suo silente danzare.
Un braccio piegato a poggiare il palmo della mano contro la guancia.
L’altro braccio alzato con la mano aperta verso il cielo.
Qualcuno diceva che lei pregasse per il marito mai più tornato dalla guerra.
Qualcuno diceva che lei pregasse per il figlio che mai aveva partorito.
Io non avevo mai detto nulla su di lei.
Non era mio uso il giudicare i pensieri, le parole e le opere altrui.
Chi ero mai io per poter giudicare gli altrui cuori?
I peccati della mia anima mi impedivano di poter emettere sentenze sugli altrui comportamenti, ma anche qualora in essa io avessi trovato una purezza immacolata, ciò mai mi avrebbe legittimato ad esprimere un giudizio su un’altra persona, perché non era me affidato tale arduo compito.
Io non potevo giudicare altra anima se non la mia.
E così io mi limitavo ad osservare in silenzio la vecchia signora trascorrere le ore delle proprie giornate a girare su se stessa da destra verso sinistra e poi di nuovo verso destra, girare dentro la stanza davanti ad una finestra aperta.
Volsi lo sguardo dal palazzo.
Osservai il muto orizzonte della città - sola ed afflitta, ma ancora così tremendamente bella - iniziare a colorarsi a poco a poco di automobili e sigarette, puttane e poliziotti a cavallo, flash di fotografie e scintille di tram, e poi ancora mille luci a splendere come stelle artificiali sopra le strade.
Spensi la sigaretta e mi allontanai dal davanzale.
Lasciai la finestra aperta a far entrare il vento nella stanza.
Mi sdraiai sul letto. 
Non avevo sonno.
Avrei trascorso un’altra notte in compagnia della mia fide malinconia. 
Chiusi gli occhi.
Le lontane urla di una vagabonda - resa folle dalla dolcezza di notti insonni trascorse per le vie solitarie della città - echeggiarono nell'oscurità dei vicoli.



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