lunedì 26 settembre 2016

Le forche della Libia



La forca era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati dei quattordici ca­potribù erano ostentati alla popolazione, che li os­ser­vava rimanendo addossata contro le mura dei pa­lazzi ai margini della piazza.
«La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cen­ciosi, doveva servire», come ha scritto Del Boca, «per da­re un esempio salutare ai “ribelli”» (1).
Era il dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale, dagli interessi economici dei gruppi indu­striali e finanziari alle missioni civilizzatrici benedette dai vescovi, dai desideri bellicisti dei nazio­na­listi al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda» necessaria per rista­bilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva proba­bilmente contribuito anche la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propa­ganda, d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con cer­tezza ogni collusione fra turchi ed arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe potuto unire le popolazioni locali, Galli as­sicurava che i soldati italiani sarebbero stati si­cura­mente accolti come liberatori.
Ai primi dell’ottobre del 1911, così, circa trenta­cinquemila uomini, al comando del generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche ed iniziarono a prendere possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici dell’esercito italiano furono istituiti nel 1896 (2), la guerra italo-turca rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili applicazioni della fotografia all’arte militare».
La Sezione Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un labora­torio fotografico. Successivamente, furono create al­tre due squadre che si stabilirono a Bengasi e a Zuara (3).
I fotografi produssero istantanee di carat­tere ope­rativo e tattico, intervenendo anche «dall’alto di di­rigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati pre­cisi alle batterie di cannoni ed immagini dei dispo­sitivi militari degli avversari arabo-turchi, contri­buendo così, per la prima volta nella storia delle imprese militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre fotografie, invece, docu­mentavano gli armamenti a disposizione delle truppe italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito e del conflitto.
Accanto alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia, si aggirarono anche i corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca Comerio, che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati, «documentare l’eroismo e la su­pe­riorità militare e morale delle truppe italiane» (4).
La fotografia diveniva uno strumento di enfatiz­za­zione della guerra come esperienza eroica e virile. I sog­getti maggiormente rappresentati e diffusi erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama esotici. La tipologia della foto­grafia ricordo, in molte occasioni, era ancora la rap­presentazione fotografica più diffusa. Molte fo­to­grafie furono riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari corrispondenti. Nel 1913, i Fratelli Treves pubblicarono l’Album Portfolio della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto essenzialmente dalle fotogra­fie pubblicate sulle pagine della rivista L’Illustra­zione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra svolta. Se simili pubblicazioni rimane­vano ristrette ad un uso riservato alle classi più ab­bienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco al­fabetizzati, furono pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline per raccontare l’e­sperienza in Libia.
Ma l’immagine della guerra serena, dell’incolu­mità e della potenza delle truppe italiane, fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà. La mattina del 23 ottobre, infatti, le truppe ita­liane furono at­taccate tra forte Messri e Sciara Sciat. A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui par­teciparono civili e guerriglieri, uomini e donne, ca­ratterizzata da una spietata violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggi­mento furono accerchiate e in poche ore massacra­te. Del Boca ha quantificato in 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimen­ti (5). In al­cune fotografie, si ve­devano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul terreno (6). I corpi dei bersa­glie­ri morti, infatti, giacevano «insepolti ovun­que; mol­ti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti» avevano «cucito gli oc­chi con lo spago; molti» era­no «stati messi sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltis­simi» avevano «avuto le parti genitali tagliate» (7). Le im­magini del massacro ini­ziarono a circolare an­che in patria, spesso attraver­so le cartoline spedite dagli stessi soldati. Per cerca­re di limitare la diffu­sione di simili immagini, nel dicembre del 1911, Giolitti in­viò il seguente tele­gramma al prefetto di Milano:
«Consta che i corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità commesse dai Tur­chi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone com­prendere assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione» (8).
Se le immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando in colonia. In alcune cartoline il plotone di esecuzione si era mes­so in posa per il fotografo, disponendo ai propri piedi i corpi dei civili fucilati. Emblematica era la didascalia che così recitava:
«La fucilazione degli arabi, che a tradimento as­salirono alle spalle gli eroici bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat».
In altre cartoline, invece, era ripreso il mo­mento della preparazione delle esecuzioni, ritraen­do i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono i colpi a tra­dimento» contro il reggimento «in attesa di essere fucilati». La didascalia e la cartolina, come ha nota­to Mignemi, confermavano più o meno inconsape­vol­mente «il carattere di esecuzione sommaria» di si­mili fucilazioni, essendo le vittime state «prescel­te perché trovate in un edificio», senza che fosse «sta­to istruito nei loro confronti un procedimento per accertare le responsabilità reali».
Lo sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie com­messe dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive depor­tazioni dei sopravvissuti alle re­pressioni.
Furono ol­tre quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscri­minate avvenute nei tre giorni che segui­rono lo scontro di Sciara Sciat. I soldati italiani in­cendiarono i villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono le donne e massa­crarono gli anziani. Questo odio veniva alimentato dalla continua propaganda, che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione».
La violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate le tesi di chi aveva pre­visto una facile accoglienza dei soldati italiani da parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ri­creare un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana, al fine di mantenere salda l’adesione al conflitto. La censura italiana iniziò a cer­care di celare gli eventi di repressione che im­per­versarono in quei giorni, ma confrontando diver­se fon­ti, si quantificarono in oltre quattromila le ese­cuzioni sommarie ed indiscriminate perpetrate con­tro la popolazione civile nei tre giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica politica e di denuncia dei crimini di guerra. Le fotografie delle repressioni ita­liane erano documenti con cui l’opposizione po­teva testimoniare le proprie argomentazioni politi­che e la propria protesta.
Il giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari, un opuscolo di de­nuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotogra­fate (9), rappresentando un atto di accusa contro la politica coloniale di Giolitti ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volu­me, si susseguivano le immagini più atroci della re­pres­sione perpetrata contro la popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rap­presaglie, le fucilazioni di massa, i processi somma­ri, gli incendi e le razzie commesse nei vil­laggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di quell’ingiu­sta e spietata guerra» (10).
La fotografia, infatti, testi­moniò la forca eretta nella Piazza del Pane a Tripoli per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al socialista Scalarini di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al pubblico italiano le forche a più posti che compone­vano macabri alberi di Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava e educava il traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi e «le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestir­pabili».
L’esposizione in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’effi­cienza della propria giustizia. La forca diventava al­lo stesso tempo strumento di repressione e di inti­midazione. Anche dopo la firma del trattato di pace, l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il pri­mario strumento per cercare di dominare l’imper­versante ribellione nei territori libici. Le immagini delle forche accesero presto anche il dibattito parla­mentare sulla politica coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta parla­mentare a de­nunciare le atrocità commesse dall’e­sercito italiano in nome della presunta civilizzazio­ne. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre 1913, ave­va pubblicato una serie di foto­grafie che documen­tavano le impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta del Parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui de­nunciava e condannava la vio­lenza della politica coloniale del governo.
«Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande mis­sione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col ri­spettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […]
Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi. […]
Io mi domando se siamo in Italia, e se il governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia» (11).
Ma nonostante le denunce e le critiche dell’oppo­sizione, le esecuzioni capitali continuarono ad esse­re emesse, spesso senza che le vittime fossero state giudicate da un giusto processo, condannate colpe­voli da sentenze a volte prive di reali motivazioni.
E così continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impicca­gioni. Interessante, in merito, è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia (12), un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931. Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò una serie di fotografie a diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di re­pressione contro la guerriglia.
La repressione in Libia, durante il fascismo, di­venne di anno in anno sempre più sistematica. Al fine di reprimere la resistenza che ancora imperver­sa­va nella Senussia, e per cercare anche di inter­rom­pere il legame che intercorreva fra le popolazio­ni del Gebel cirenaico e la guerriglia, Badoglio e Gra­ziani fecero deportare circa 80.000 civili per es­se­re poi confinati nei campi di concentramento del­la Sirtica (13).
Il controllo del regime fascista sulla fotografia, tuttavia, divenne più capillare e sistematico. Diffici­le trovare nelle fotografie ufficiali scene di repres­sione. Ma la fotografia privata, invece, spesso do­cumentò l’efferatezza delle impiccagioni, testimo­niando anche il rituale preparato per ostentare l’im­piccagione di Omar el Muktar (14), nel campo di con­centramento di Soluch, davanti ai notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager. Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri, infatti, i condannati re­clusi in diversi campi di detenzione furono condotti sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condan­na.
«L’impiccagione del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti a ventimila deportati», concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e «l’efficien­za degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero «state scatenate in Etiopia» (15).
E fu proprio durante la guerra d’Etiopia che la fotografia fu as­sunta a divenire un importante stru­mento dell’imperialismo fascista.



Note:

(1) Vedi Del Boca A.,  Italiani, brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, p. 112.
(2) Il 1 aprile 1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III Reggimento Genio a Roma.
(3) Vedi Rosati A., Immagini delle campagne coloniali. La guerra Italo-Turca 1911-1912, Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000.
(4) Vedi Causa C., La guerra italo-turca e la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, Salani, Firenze, 1913.
(5) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(6) Vedi Palma S., L’Italia coloniale, op. cit., pp. 76-79.
(7) Vedi Piccioli F., Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano, 1974, p. 26.
(8) Archivio di Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefet­tura», I vers., c. 567, telegramma cifr. N. 31498 del 5 dicembre 1911.
(9) Vedi Valera P., Le giornate di Sciarasciat fotografate, Stabilimento tipografico Borsani, Milano, 1911. Le immagini delle fucilazione e delle rappresaglie furono testimoniate anche da altri fotografi. A tal proposito vedi AA.VV.,…Ausonia in­tanto ha una colonia. Immagini del colonialismo italiano, Artegrafica Bolzonella, Padova, 1985; Angrisani A., Immagini della guerra di Libia, Lacaita, Manduria, 1997.
(10) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit.,  p. 111.
(11) Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557.
(12) Vedi Labanca N., (a cura di), Un nodo. Immagini e do­cu­menti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Pietro Lacaita, Roma Bari, Manduria 2002, pp. 5-114.
(13) Del Boca ha ricordato come nel biennio 1930-31, dai 40.000 ai 60.000 abitanti del Gebel morirono «nel corso delle azioni repressive e per il tifo petecchiale contratto nei campi di concentramento». Sempre Del Boca ha ricordato come lo stes­so Badoglio riconobbe l'estremo rigore della misura, ma anche come ne giustificò la necessità, sostenendo come essa dovesse essere perseguita «sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Vedi Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale II, La conquista dell'Impero, Oscar Monda­do­ri, Milano, 2001, p. 15; Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., pp. 165-182.
(14) Fu il fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del 1931, riprendendo il leader della resistenza pirenaica accerchiato dai soldati del 7° squa­droni savari guidato dal capitano Bertè.
(15) Vedi Del Boca A., La conquista dell'Impero, op. cit., p. 16.






Tratto da La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento dell'imperialismo fascista


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