giovedì 20 ottobre 2016

La Camera Chiara di Roland Barthes

 

Era l'ultimo anno d'università. Mi aggiravo fra gli scaffali di una libreria - nel settore Fotografia - alla ricerca di qualche libro che potesse essere di aiuto per la tesi che stavo preparando. 
Mi sarei laureato alla facoltà di Scienze Politiche con una tesi in Storia Contemporanea. L'argomento che avevo scelto di trattare era la produzione fotografica dell'Istituto Luce durante il ventennio fascista. Volevo cercare di analizzare e narrare come la fotografia avesse rappresentato la realtà dell'epoca e quale fosse stato l'uso politico che il regime fascista aveva effettuato di quelle fotografie. 
Una volta a settimana mi recavo presso l'Istituto Luce per visionare il materiale fotografico presente nei loro archivi. Avevo preso anche l'abitudine di recarmi presso l'Archivio Centrale di Stato alla ricerca di quelle disposizioni emesse nel corso del ventennio sulla fotografia per cercare di analizzare le eventuali finalità politiche che il regime fascista - attraverso i ministeri preposti che si erano succedui negli anni fino alla istituzione del Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) - assegnava alla fotografia.
E fu così che - mentre lo sguardo scorreva sui volumi presenti sullo scaffale - trovai La camera chiara di Barthes. 
Avevo letto su altri libri alcune citazioni di questo saggio che mi avevano spinto ad annotarlo fra i titoli da leggere. Sul tram di ritorno a casa aprii le pagine ed iniziai a leggere:
Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l'Imperatore». 
Era la primavera del 1979 quando Roland Barthes iniziò a scrivere queste parole.
Una serie di note, disgressioni, riflessioni - come recita nella quarta di copertina del libro - su cosa fosse la fotografia.
Colto da un desiderio «ontologico» - come scrisse lui stesso - Barthes voleva a ogni costo sapere cos'era la fotografia «in sé», attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.
Dopo aver scoperto che ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente Barthes osservava come una fotografia possa essere l'oggetto di tre pratiche - fare, subire, guardare - a cui corrispondono tre soggetti presenti nella fotografia: l'Operator, che è il fotografo; lo Spectator che è la persona che osserva la fotografia; e lo Spectrum ossia chi è  fotografato. 
Ma il momento della lettura che suscitò in me maggior interesse fu quando Barthes iniziò a riflettere e discorrere sul rapporto che si instaura fra la fotografia e l'osservatore. 
Nelle fotografie spesso compaiono dettagli - di persone o luoghi od altri infiniti dettagli - che il fotografo in quel momento non ha notato o - qualora notati - non ha potuto fare a meno di escludere, e che emergono nella loro presenza a connettere e indicare altri significati nell'immagine stessa.
Perché alcune fotografie attraevano Barthes provocando in lui gioie sottili ed altre invece lo lasciavano talmente indifferente fino a fargli provare alla lunga una sorta di avversione od irritazione? 
Cosa rende una fotografia attraente e cosa la rende indifferente o peggio ancora irritante?
Barthes, analizzando alcune fotografie, arrivò a definire come in ogni fotografia coesistano due elementi: lo studium, che consiste nell'interessamento culturale o personale, proveniente dall'osservatore e rivolto verso la fotografia, ed il punctum, una sorta di ferita provocata da una freccia che parte dalla fotografia e raggiunge l'osservatore a carpire la sua attenzione. È la presenza del punctum, di quel particolare che mi attrae, a dare un nuovo senso ed un nuovo valore alla fotografia che osservo.
Dopo aver riflettuto sull'indefinita essenza del punctum, mi colpirono ancor più le riflessioni di Barthes quando iniziò a riordinare alcune fotografie della madre morta, risalendo a poco a poco il tempo assieme a lei, cercando la verità del volto che avevo amato fin quando finalmente non la scoprì in una vecchia fotografia cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d'un color seppia smorto in cui la madre era ritratta da bambina.
Proprio osservando quella fotografia Barthes ritrovò la propria madre.
Sono pagine intense di riflessioni sulla madre, sulla morte ed il dolore, sulla malattia e sulla cura verso la persona cara, sulla fotografia e la sua essenza, sul lutto che non cancella il dolore, sul Tempo che elimina l'emozione della perdita (non piango), e basta.
E forse l'essenza della fotografia, secondo Barthes, è che essa dice ciò che è stato, ratifica ciò che essa ha ritratto. E così ecco che dalla fotografia parte allora un nuovo punctum che è il Tempo. 
Queste furono le note e le riflessioni che all'epoca più mi colpirono, insegnandomi un nuovo modo di pormi nei confronti della fotografia e nel suo metodo di studio. 
Negli anni avrei letto altre volte quelle note e riflessioni di Barhes, e spesso avrei trovato nuovi significati magari sfuggiti a quella prima lettura, ma sarebbe sempre rimasta ferma la convinzione che La camera chiara rimanga un saggio caposaldo, un testo fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla fotografia ed entrare nel suo misterioso ed affascinante mondo.