lunedì 26 settembre 2016

Le forche della Libia



La forca era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati dei quattordici ca­potribù erano ostentati alla popolazione, che li os­ser­vava rimanendo addossata contro le mura dei pa­lazzi ai margini della piazza.
«La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cen­ciosi, doveva servire», come ha scritto Del Boca, «per da­re un esempio salutare ai “ribelli”» (1).
Era il dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale, dagli interessi economici dei gruppi indu­striali e finanziari alle missioni civilizzatrici benedette dai vescovi, dai desideri bellicisti dei nazio­na­listi al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda» necessaria per rista­bilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva proba­bilmente contribuito anche la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propa­ganda, d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con cer­tezza ogni collusione fra turchi ed arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe potuto unire le popolazioni locali, Galli as­sicurava che i soldati italiani sarebbero stati si­cura­mente accolti come liberatori.
Ai primi dell’ottobre del 1911, così, circa trenta­cinquemila uomini, al comando del generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche ed iniziarono a prendere possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici dell’esercito italiano furono istituiti nel 1896 (2), la guerra italo-turca rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili applicazioni della fotografia all’arte militare».
La Sezione Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un labora­torio fotografico. Successivamente, furono create al­tre due squadre che si stabilirono a Bengasi e a Zuara (3).
I fotografi produssero istantanee di carat­tere ope­rativo e tattico, intervenendo anche «dall’alto di di­rigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati pre­cisi alle batterie di cannoni ed immagini dei dispo­sitivi militari degli avversari arabo-turchi, contri­buendo così, per la prima volta nella storia delle imprese militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre fotografie, invece, docu­mentavano gli armamenti a disposizione delle truppe italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito e del conflitto.
Accanto alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia, si aggirarono anche i corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca Comerio, che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati, «documentare l’eroismo e la su­pe­riorità militare e morale delle truppe italiane» (4).
La fotografia diveniva uno strumento di enfatiz­za­zione della guerra come esperienza eroica e virile. I sog­getti maggiormente rappresentati e diffusi erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama esotici. La tipologia della foto­grafia ricordo, in molte occasioni, era ancora la rap­presentazione fotografica più diffusa. Molte fo­to­grafie furono riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari corrispondenti. Nel 1913, i Fratelli Treves pubblicarono l’Album Portfolio della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto essenzialmente dalle fotogra­fie pubblicate sulle pagine della rivista L’Illustra­zione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra svolta. Se simili pubblicazioni rimane­vano ristrette ad un uso riservato alle classi più ab­bienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco al­fabetizzati, furono pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline per raccontare l’e­sperienza in Libia.
Ma l’immagine della guerra serena, dell’incolu­mità e della potenza delle truppe italiane, fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà. La mattina del 23 ottobre, infatti, le truppe ita­liane furono at­taccate tra forte Messri e Sciara Sciat. A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui par­teciparono civili e guerriglieri, uomini e donne, ca­ratterizzata da una spietata violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggi­mento furono accerchiate e in poche ore massacra­te. Del Boca ha quantificato in 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimen­ti (5). In al­cune fotografie, si ve­devano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul terreno (6). I corpi dei bersa­glie­ri morti, infatti, giacevano «insepolti ovun­que; mol­ti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti» avevano «cucito gli oc­chi con lo spago; molti» era­no «stati messi sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltis­simi» avevano «avuto le parti genitali tagliate» (7). Le im­magini del massacro ini­ziarono a circolare an­che in patria, spesso attraver­so le cartoline spedite dagli stessi soldati. Per cerca­re di limitare la diffu­sione di simili immagini, nel dicembre del 1911, Giolitti in­viò il seguente tele­gramma al prefetto di Milano:
«Consta che i corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità commesse dai Tur­chi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone com­prendere assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione» (8).
Se le immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando in colonia. In alcune cartoline il plotone di esecuzione si era mes­so in posa per il fotografo, disponendo ai propri piedi i corpi dei civili fucilati. Emblematica era la didascalia che così recitava:
«La fucilazione degli arabi, che a tradimento as­salirono alle spalle gli eroici bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat».
In altre cartoline, invece, era ripreso il mo­mento della preparazione delle esecuzioni, ritraen­do i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono i colpi a tra­dimento» contro il reggimento «in attesa di essere fucilati». La didascalia e la cartolina, come ha nota­to Mignemi, confermavano più o meno inconsape­vol­mente «il carattere di esecuzione sommaria» di si­mili fucilazioni, essendo le vittime state «prescel­te perché trovate in un edificio», senza che fosse «sta­to istruito nei loro confronti un procedimento per accertare le responsabilità reali».
Lo sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie com­messe dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive depor­tazioni dei sopravvissuti alle re­pressioni.
Furono ol­tre quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscri­minate avvenute nei tre giorni che segui­rono lo scontro di Sciara Sciat. I soldati italiani in­cendiarono i villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono le donne e massa­crarono gli anziani. Questo odio veniva alimentato dalla continua propaganda, che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione».
La violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate le tesi di chi aveva pre­visto una facile accoglienza dei soldati italiani da parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ri­creare un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana, al fine di mantenere salda l’adesione al conflitto. La censura italiana iniziò a cer­care di celare gli eventi di repressione che im­per­versarono in quei giorni, ma confrontando diver­se fon­ti, si quantificarono in oltre quattromila le ese­cuzioni sommarie ed indiscriminate perpetrate con­tro la popolazione civile nei tre giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica politica e di denuncia dei crimini di guerra. Le fotografie delle repressioni ita­liane erano documenti con cui l’opposizione po­teva testimoniare le proprie argomentazioni politi­che e la propria protesta.
Il giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari, un opuscolo di de­nuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotogra­fate (9), rappresentando un atto di accusa contro la politica coloniale di Giolitti ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volu­me, si susseguivano le immagini più atroci della re­pres­sione perpetrata contro la popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rap­presaglie, le fucilazioni di massa, i processi somma­ri, gli incendi e le razzie commesse nei vil­laggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di quell’ingiu­sta e spietata guerra» (10).
La fotografia, infatti, testi­moniò la forca eretta nella Piazza del Pane a Tripoli per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al socialista Scalarini di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al pubblico italiano le forche a più posti che compone­vano macabri alberi di Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava e educava il traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi e «le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestir­pabili».
L’esposizione in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’effi­cienza della propria giustizia. La forca diventava al­lo stesso tempo strumento di repressione e di inti­midazione. Anche dopo la firma del trattato di pace, l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il pri­mario strumento per cercare di dominare l’imper­versante ribellione nei territori libici. Le immagini delle forche accesero presto anche il dibattito parla­mentare sulla politica coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta parla­mentare a de­nunciare le atrocità commesse dall’e­sercito italiano in nome della presunta civilizzazio­ne. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre 1913, ave­va pubblicato una serie di foto­grafie che documen­tavano le impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta del Parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui de­nunciava e condannava la vio­lenza della politica coloniale del governo.
«Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande mis­sione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col ri­spettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […]
Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi. […]
Io mi domando se siamo in Italia, e se il governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia» (11).
Ma nonostante le denunce e le critiche dell’oppo­sizione, le esecuzioni capitali continuarono ad esse­re emesse, spesso senza che le vittime fossero state giudicate da un giusto processo, condannate colpe­voli da sentenze a volte prive di reali motivazioni.
E così continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impicca­gioni. Interessante, in merito, è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia (12), un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931. Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò una serie di fotografie a diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di re­pressione contro la guerriglia.
La repressione in Libia, durante il fascismo, di­venne di anno in anno sempre più sistematica. Al fine di reprimere la resistenza che ancora imperver­sa­va nella Senussia, e per cercare anche di inter­rom­pere il legame che intercorreva fra le popolazio­ni del Gebel cirenaico e la guerriglia, Badoglio e Gra­ziani fecero deportare circa 80.000 civili per es­se­re poi confinati nei campi di concentramento del­la Sirtica (13).
Il controllo del regime fascista sulla fotografia, tuttavia, divenne più capillare e sistematico. Diffici­le trovare nelle fotografie ufficiali scene di repres­sione. Ma la fotografia privata, invece, spesso do­cumentò l’efferatezza delle impiccagioni, testimo­niando anche il rituale preparato per ostentare l’im­piccagione di Omar el Muktar (14), nel campo di con­centramento di Soluch, davanti ai notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager. Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri, infatti, i condannati re­clusi in diversi campi di detenzione furono condotti sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condan­na.
«L’impiccagione del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti a ventimila deportati», concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e «l’efficien­za degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero «state scatenate in Etiopia» (15).
E fu proprio durante la guerra d’Etiopia che la fotografia fu as­sunta a divenire un importante stru­mento dell’imperialismo fascista.



Note:

(1) Vedi Del Boca A.,  Italiani, brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, p. 112.
(2) Il 1 aprile 1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III Reggimento Genio a Roma.
(3) Vedi Rosati A., Immagini delle campagne coloniali. La guerra Italo-Turca 1911-1912, Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000.
(4) Vedi Causa C., La guerra italo-turca e la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, Salani, Firenze, 1913.
(5) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(6) Vedi Palma S., L’Italia coloniale, op. cit., pp. 76-79.
(7) Vedi Piccioli F., Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano, 1974, p. 26.
(8) Archivio di Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefet­tura», I vers., c. 567, telegramma cifr. N. 31498 del 5 dicembre 1911.
(9) Vedi Valera P., Le giornate di Sciarasciat fotografate, Stabilimento tipografico Borsani, Milano, 1911. Le immagini delle fucilazione e delle rappresaglie furono testimoniate anche da altri fotografi. A tal proposito vedi AA.VV.,…Ausonia in­tanto ha una colonia. Immagini del colonialismo italiano, Artegrafica Bolzonella, Padova, 1985; Angrisani A., Immagini della guerra di Libia, Lacaita, Manduria, 1997.
(10) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit.,  p. 111.
(11) Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557.
(12) Vedi Labanca N., (a cura di), Un nodo. Immagini e do­cu­menti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Pietro Lacaita, Roma Bari, Manduria 2002, pp. 5-114.
(13) Del Boca ha ricordato come nel biennio 1930-31, dai 40.000 ai 60.000 abitanti del Gebel morirono «nel corso delle azioni repressive e per il tifo petecchiale contratto nei campi di concentramento». Sempre Del Boca ha ricordato come lo stes­so Badoglio riconobbe l'estremo rigore della misura, ma anche come ne giustificò la necessità, sostenendo come essa dovesse essere perseguita «sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Vedi Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale II, La conquista dell'Impero, Oscar Monda­do­ri, Milano, 2001, p. 15; Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., pp. 165-182.
(14) Fu il fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del 1931, riprendendo il leader della resistenza pirenaica accerchiato dai soldati del 7° squa­droni savari guidato dal capitano Bertè.
(15) Vedi Del Boca A., La conquista dell'Impero, op. cit., p. 16.






Tratto da La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento dell'imperialismo fascista


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giovedì 8 settembre 2016

Roma «città aperta» nelle fotografie ufficiali dell’epoca

«Romani, dopo l’appello di S.M. il Re Imperatore agli Italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizione ai supremi interessi della Nazione. Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente. Badoglio».
Così era scritto in un manifesto affisso sulle mura di Roma il 26 luglio del 1943, e fotografato dagli operatori dell’Istituto Luce.
Quando la radio aveva annunciato la destituzione di Mussolini, gli operatori dell’Istituto, che per tutto il Ventennio avevano ripreso le adunate oceaniche di Piazza Venezia e le acclamazioni popolari ai discorsi del duce, si gettarono di nuovo per le strade di Roma, questa volta con l’intento, però, di fotografare il consenso della popolazione alla decisione di porre fine al regime fascista.
Gli operatori del Luce fotografarono così la popolazione riversare nelle strade di Roma per acclamare Badoglio nella veste del nuovo Capo del Governo. Essi fotografarono la città imbandierata, nonché la folla di persone che gremiva via del Corso, via Nazionale, innalzando cartelloni con sopra scritto W l’Italia libera.
In una piazza Colonna riempita dalla folla, gli operatori del Luce ripresero alcune persone innalzare un cartello con sopra impressa la scritta Piazza G. Matteotti; per poi seguire le persone che, arrampicandosi su lunghe scale, iniziavano a demolire i fasci littori dalle mura dei palazzi.
Ma presto tali manifestazioni di esultanza popolare iniziarono ad essere sgradite al nuovo governo insediatosi, arrivando al punto di ordinare alle forze dell’ordine di sciogliere molti assembramenti con l’uso della forza, e così il Luce, dopo aver fotografato il popolo che si gettava nelle vie a distruggere tutti i simboli del fascismo che trovava lungo il suo corso, iniziò a riprendere anche i primi provvedimenti del nuovo governo Badoglio, i primi picchetti armati e l’affissione del sopra citato primo manifesto murale.
E bisognò aspettare la giornata del 15 agosto per trovare nuovamente fotografie di assembramenti popolari consentiti, quando gli operatori del Luce fotografarono la folla che riempiva Piazza San Pietro per acclamare Pio XII a testimoniare l’affetto ed il ringraziamento che la popolazione gli donava per aver visitato i luoghi colpiti dai bombardamenti, oltre alla riconoscenza per l’intervento e l’interessamento che la diplomazia vaticana aveva avuto nel far dichiarare Roma “città aperta”, riflettendo, così, come la popolazione romana ormai affidasse le proprie speranze soltanto alla Santa Sede ed al Papa (1).
Nei giorni dell’agosto del 1943, il Reparto Guerra del Luce, nel frattempo, tornò spesso a documentare gli effetti dei bombardamenti a Roma, riprendendo una cerimonia militare con la bandiera italiana a mezz’asta in segno di lutto, ma soprattutto fotografando i cadaveri che affioravano fra le macerie.
Gli operatori del Reparto fotografarono i corpi morti di un gruppo di neonati, i cadaveri stesi sul selciato divelto davanti ad un asilo comunale nella zona romana di Tiburtina, i treni incendiati nella stazione Casilina, o i corpi senza vita che venivano ritrovati fra le macerie, o stesi nel mezzo della ferrovia bombardata. Ma queste fotografie furono tutte archiviate come riservate, a testimoniare come la censura sull’immagine fotografica continuasse, nonostante il cambio di governo.
Il Luce, per certi versi, nei giorni seguenti testimoniò emblematicamente anche la confusione in cui fu gettata la nazione, ed in assenza di vere e proprie direttive politiche su cosa fotografare, nei “quarantacinque giorni” di Badoglio, si concentrò a produrre un innumerevole quantitativo di fotografie sulla lavorazione del vetro a Murano, a Trieste, sulla produzione ortofrutticola di Chioggia, o effettuando un ampio servizio fotografico sulle varie fasi di lavorazione della sezione conserviera dell’industria Arrigoni.
E nessun operatore dell’Istituto si aggirò per Porta San Paolo, la mattina del 10 settembre, quando civili e reparti dell’esercito, dopo la fuga di Badoglio e del re, cercarono di resistere all’occupazione della città da parte dell’esercito nazista. Nessuna immagine fu ufficialmente prodotta dall’Istituto Luce, e se vogliamo cercare qualche scorcio di quella giornata, lo possiamo rinvenire in fotografie di privati che riprendevano i resistenti nell’atto di difendere Roma dietro barricate improvvisate o proteggendosi dietro le vetture, opponendo, nonostante l’immenso divario di forze umane e militari che giocava a favore delle truppe del maresciallo Kesselring, una strenua e coraggiosa battaglia.
E prima di essere trasferito definitivamente a Venezia, dove dall’ottobre del 1944 sarebbe stato dotato di una spaziosa residenza a Sant’Elena dei Giardini, nel cineborgo della Repubblica di Salò, il Luce tornò ad aggirarsi per la città, per riprendere essenzialmente la costituzione del Partito Fascista Repubblicano.
Gli operatori fotografarono le varie manifestazioni pubbliche, le visite degli esponenti del partito ad asili e sanatori, la messa e le manifestazioni alla memoria di Ettore Muti, le iscrizioni degli aderenti al partito, il maresciallo Graziani tenere il discorso del teatro Adriano, i valori di Montecassino portati a Castel Sant’Angelo, la Federazione Romana del PFR rendere omaggio al Milite Ignoto e all’Ara dei Caduti Fascisti, o confezionare i pacchi dono per sinistrati e sfollati.
Una rappresentazione fotografica che cercava di costruire l’immagine di un partito vivente ed ancora presente nella vita italiana.
Ma la vera realtà della città iniziava ad essere tratteggiata in una delle ultime fotografie scattate dal Luce sul suolo romano, quando gli operatori ci consegnarono l’immagine di una Roma ormai pattugliata dai soldati tedeschi, a vigilare «sulla linea di confine a Piazza San Pietro», come recitava la didascalia impressa nei registri dell’Archivio Fotografico del Luce.
Una volta trasferito l’Istituto, gli operatori del Luce raramente tornarono a Roma per fotografare gli eventi della città durante i mesi dell’occupazione nazista.
Poche furono le fotografie scattate sul suolo romano, qualche raro spettacolo in onore dei feriti italo-tedeschi alla presenza di Pizzirani, qualche immagine raffigurante soldati alleati a marciare prigionieri per le vie del centro, pubblicate con sotto impresse didascalie quali: «Gli anglo-americani hanno visto Roma»; oppure le immagini dei bombardamenti angloamericani che continuavano a colpire la città, come l’ampia documentazione sui bombardamenti avvenuti nel marzo del 1944, fotografando gli effetti di tali bombardamenti sulla parrocchia di San Benedetto, al quartiere Ostiense, sulla Casa della Maternità alla Garbatella, sul convento delle suore Orsoline o sull’asilo d’infanzia in via Lorenzo il Magnifico.
Furono altri fotografi a rappresentare ufficialmente gli eventi della città.  
Accanto all’Istituto Luce, infatti, durante il periodo dell’occupazione nazista, operarono nella ripresa degli avvenimenti in Italia anche i vari fotografi tedeschi della Propaganda Kompanien dell’esercito, dell’aviazione, della marina e della Waffen-SS, presso le quali erano appunto distaccati i vari fotografi di guerra.
I fotografi dipendevano dall’Oberkommando der Wehrmacht, cioè dalla sezione del comando supremo delle forze tedesche, incaricata della propaganda, ed a cui giungevano tutte le immagini, per essere sottoposte al vaglio della censura prima di poter essere distribuite alle agenzie di stampa (2).
Ed erano state proprio le PK, d’altronde, a fotografare la liberazione di Mussolini, il 12 settembre del 1943, a Campo Imperatore sul Gran Sasso, ritraendolo rattrappito in un cappotto col bavero rialzato, intento a salire su di un piccolo aereo.
E sarebbero state sempre loro molto spesso a consegnare alla storia la terribile testimonianza di molti eccidi perpetrati dai nazisti contro la popolazione civile italiana. Fotografie scattate con l’intenzionalità politica di elevare la morte a monito contro i partigiani affinché non continuassero la loro resistenza, fotografie scattate per una consuetudine militare di ritrarre immagini di morte violenta per esorcizzare la morte stessa, fotografie che poi sarebbero rimaste a testimoniare l’atrocità di quelle rappresaglie ed in molti casi furono anche utilizzate come prove giudiziarie durante i processi che si sarebbero avuti nel dopoguerra.
Molte di queste fotografie sono state raccolte da Mignemi e De Luna nel loro libro Storia fotografica della Repubblica Sociale Italiana (3), ed osservando alcune fotografie, l’immagine risalente che i fotografi delle PK tratteggiarono di Roma, per certi versi, sembra quasi tessere una trasfigurazione della realtà cittadina.
Basti vedere quei servizi fotografici che forse intendevano propagandare l’immagine di una Roma senza alcun problema alimentare. 
Gli operatori ripresero i greggi e le piccole mandrie che attraversavano le piazze della città per essere portati al mattatoio, o  si aggirarono per i mercati rionali, fotografando banchi pieni di frutta, verdura e pollami. Una rappresentazione che stridente contrastava con le voci e le testimonianze che si levavano dalla popolazione a tratteggiare una realtà di continua fame, in una città in cui la distribuzione delle razioni alimentari sembrava sempre più divenire quantitativamente insufficiente, come veniva anche attestato nelle relazioni fiduciarie che riportavano il malcontento della popolazione e nei documenti del Ministero dell’Interno.
Una rappresentazione che certo non fotografava la realtà di quei vasti settori della popolazione che venivano gradualmente stritolati fra le disposizioni che aumentavano il prezzo del pane, la distribuzione ritardata della razione di pasta, le speculazioni crescenti dei borsari neri.
Ma questa, d’altronde, era una rappresentazione che ricordava la coreografia fotografica effettuata dal regime fascista durante i primi anni di guerra, quando i fotografi del Luce si aggirarono per Roma a riprendere l’allestimento dei vari orti di guerra, con l’intento di attestare la produttività dell’agricoltura italiana, di enfatizzare la mobilitazione della popolazione, e ricollegare la rappresentazione dell’Italia fascista come continuazione storica dell’antica Roma, in cui il cittadino era dipinto come guerriero e contadino veterano.
Al fine di negare la drammaticità economica e sociale del paese, sin dall’estate del 1941, il Luce aveva così iniziato a fotografare i vari orti di guerra che riempivano gli spazi pubblici delle città.
Gli operatori fotografarono gli orti di guerra di Villa Torlonia, nei giardini di San Giovanni, od ancora il 6 agosto del 1941 all’Università La Sapienza. In quest’ultimo caso, con l’ulteriore intento di propagandare l’impegno di tutta la società agli sforzi della guerra, gli operatori del Luce fotografarono alcune giovani studentesse sorridenti mentre raccoglievano delle patate nell’orto di guerra, impiantato nei giardini di fronte alla facoltà di «Fisiologia Generale».
Gli orti di guerra iniziarono a riempire sempre di più ogni angolo delle città, ed il Luce, nel febbraio del 1942, fotografò il loro allestimento a Villa Umberto, a San Giovanni in Laterano, lungo viale dell’Impero, al Colle Oppio, per poi riprendere nell’estate successiva, la popolazione intenta nelle varie fasi della lavorazione e della trebbiatura del grano in piazza del Popolo a Roma (4)
Ancora più surreali sembravano i servizi fotografici delle PK che riprendevano le tranquille passeggiate nelle città, le persone sedute sui bar ad ascoltare musica e sorseggiare tranquillamente aperitivi, od appoggiati sotto un sole primaverile a leggere le ultime notizie dei giornali, così contrastanti con la realtà di una città schiacciata dal coprifuoco e attonita dalla paura dell’invasore. Alcune fotografie sembrerebbero scattate a ricordo di una situazione privilegiata che vivevano i soldati, come nelle immagini che ritraevano lo spettacolo di una ballerina in un locale notturno frequentato dalle truppe tedesche. Ma forse, a tali immagini, era anche soggiacente il disegno politico di propagandare il messaggio di come soltanto gli anglo-americani violassero con i loro bombardamenti lo status di “città aperta” della capitale.
Immagini che certo sembrano assurde rispetto alla realtà di via Tasso 145, la caserma della Gestapo diretta dall’ufficiale Kappler, nel cui carcere durante i  mesi dell’occupazione nazista, furono rinchiusi e torturati civili e partigiani prima di essere deportati o fucilati a Forte Bravetta; rispetto alle continue torture perpetrate dall’aguzzino Koch (5) e dalla sua banda nella pensione Jaccarino, rispetto al numero di persone deportate, dal rastrellamento del ghetto ebraico a quello del Quadraro.
Una realtà che emerse agghiacciante oltre l’aspetto patinato delle fotografie di costume, quando dopo l’attentato partigiano in via Rasella, con cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione delle SS Polizei Regiment Bozen, le PK fotografarono il 23 marzo 1944 le fasi del rastrellamento, riprendendo un sottoufficiale del comando di Roma intento ad esaminare i resti della bomba, ma soprattutto immortalando i militari altoatesini del Polizei-Battaillon Bozen pattugliare la strada con le spalle al muro ed i fucili puntati alle finestre delle case.
Quelle case che furono crivellate di proiettili dai nazisti alla disperata ricerca di colpire gli esecutori dell’attentato. Una foga ed una voglia di vendetta che spinse i soldati ad arrestare chiunque passasse nei paraggi, prelevando dagli appartamenti e dai fabbricati da cui si pensava fosse stato sparato chiunque vi si trovasse in quell’istante, perquisendo abitazioni arrestando un gran numero di abitanti totalmente estranei al conflitto in atto. Una massa di arrestati, perseguiti, i cui volti compaiono in quelle fotografie, ritratti addosso alle mura di palazzo Pittoni, sotto lo sguardo vigile ed armato dei soldati.
E furono ancora le PK a fotografare le persone schierate davanti la cancellata del Palazzo Barberini, controllate a vista dai fucili spianati dei soldati del III battaglione del Polizei-Regiment Bozen e del battaglione Barbarigo della X Mas (6).  
Visi di persone che poi sarebbero stati sottoposti a strenuanti interrogatori condotti con sevizie e senza alcun rispetto della dignità umana, testimoniando l’inizio di una foga di rappresaglia che culminò con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui 335 italiani furono uccisi per soddisfare la voglia di vendetta di Hitler e del comando militare tedesco operante in Italia.
E se nessuna immagine è stata rinvenuta di quei drammatici momenti, se la strage fu condotta nella più assoluta segretezza, è senz’altro vivida nel suo dolore la testimonianza lasciata dal documentario Giorni di Gloria (7) relativa alla scoperta delle salme. Quelle immagini in bianco e nero a riprendere le ricerche degli scavatori nei cunicoli che i tedeschi avevano ostruito con le esplosioni dei genieri e con mucchi di immondizia per meglio occultare lo scempio da loro perpetrato. Quelle immagini a testimoniare il momento del ritrovamento di quei corpi ammassati in una lugubre piramide, sommersi dal terriccio causato dalle esplosioni, trasportati ormai irriconoscibili sopra i tavoli dove si sarebbe ricercato di ridonare loro quell’identità strappata dall’eccidio nazista. Visibili nelle immagini erano ancora le mani delle vittime legate con fili e corde dietro le schiene. E poi oggetti, soltanto oggetti appartenuti alle vittime, in molti casi unico legame possibile rimasto per donare un nome a quegli scheletri e teschi appartenenti a persone consumate dall’atrocità nazi-fascista. Orologi, frammenti di lettere, parole scritte per un ultimo addio od un’ultima preghiera, brandelli di stoffe, unico legame per effettuare un’identificazione altrimenti impossibile. Ed ancora le immagini strazianti del pianto e delle urla dei parenti, la disperazione dopo aver riconosciuto qualche caro fra i martiri delle Fosse Ardeatine. Ma anche il dolore composto di quei parenti che con la loro testimonianza raccontavano quelle giornate di smarrimento, quando non avevano notizie dei propri cari, e temevano quella sorte avversa che poi si sarebbe avverata. (8)
E dopo qualche mese avvenne la Liberazione della città, e furono questa volta gli operatori foto-cinematografici a seguito delle truppe americane (9) a riprendere i momenti di quelle giornate.
Gli operatori fotografarono i soldati all’ingresso di Porta Maggiore nella giornata del 5 giugno, per poi riprendere la popolazione festeggiare nelle vie della città, le ragazze sorridenti e le jeep americane con seduti sopra bambini e civili in festa. I fotografi ripresero un Altare della Patria gremito di soldati statunitensi accerchiati da una popolazione trepidante per la liberazione dai tedeschi. Nei giorni seguenti, gli operatori fotografarono le persone riunite in cerchio a leggere i giornali che annunciavano l’evento, come l’Avanti che recitava «Da Roma liberata un solo grido: Italia libera!» od il Tempo che annunciava «Le truppe anglo-americane sono entrate ieri a Roma». Ma soprattutto si aggirarono per la città a fotografare i soldati americani offrire cibo ai civili dalle proprie scatolette o mentre si apprestavano a curare una ragazza ferita, nel cui viso era ancora vivida un’espressione di timore. Ed anche nei mesi successivi, gli operatori americani cercarono, attraverso le proprie fotografie, di testimoniare le attenzioni e l’interesse che i soldati apprestavano alla popolazione romana, come nelle immagini che ritraevano la coda di persone accorrere per ricevere assistenza alimentare al Centro Cucina Popolare n.15; per poi produrre le immagini di una serena amicizia fra i soldati e le ragazze del luogo, come quelle fotografie che ritraevano soldati intenti a passeggiare serenamente per strade o a farsi accompagnare per i monumenti della città da quelle ragazze sorridenti che nelle didascalie venivano indicate come le «segnorine».
Una metodologia fotografica che pian piano pose le fondamenta nell’immaginario collettivo del mito del soldato americano liberatore. Emblematico esempio era l’immagine scattata nel centro di Roma, con un soldato americano sorridente in piedi sulla propria jeep a sorreggere un bambino, mentre le persone gremivano tutta via del Corso che si apriva sullo sfondo della fotografia, e visi esultanti salutavano e toccavano di gratitudine il soldato.  
Una ripresa fotografica che, riprendendo il corpo del soldato in primo piano, gli conferiva una presenza statuaria, innalzandolo al centro della fotografia e pertanto propagandando un messaggio di potenza, ma allo stesso tempo, ritraendolo intento a stringere e cullare al proprio petto un neonato, creava l’immagine degli Stati Uniti amici, protettori paterni dell’Italia. Un’immagine paterna e protettrice degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, che in molte crisi del dopoguerra, e tutt’oggi durante il conflitto iracheno, è stata spesso fatta risaltare dalle forze politiche intenzionate ad avallare le decisioni internazionali americane. Il soldato liberatore, il soldato protettore, che salvava la città dalla violenza nazista e donava carezze e cioccolato alla popolazione, la costruzione fotografica di un messaggio politico che sarebbe stato ricordato negli anni.
Ed infine venne il tempo della Roma dei processi che avrebbero condannato alcuni fascisti all’esecuzione capitale, come quelle avvenuta contro Caruso (10), o successivamente contro l’aguzzino Koch (11).
E furono ancora gli operatori americani a fotografare l’odio e la rabbia che tanti anni di dittatura fascista prima e occupazione nazista poi avevano creato negli animi della popolazione. Così possono essere lette quelle tremende fotografie che riprendevano la popolazione intenta a linciare Donato Carretta, direttore del carcere di Regina Coeli.  Fotografie che ritraevano il corpo di Carretta gettato nelle acque del Tevere, con la popolazione a fissare composta dai bordi del fiume il suo corpo cercare di tornare a galla ma sempre respinto da alcune persone che lo colpivano ripetutamente sulla testa con i remi di una barca,   a costringerlo ad affogare tramortito dentro il fiume,  prima di essere prelevato ormai senza più vita.
Ed anche il Luce, dopo aver fotografato la Liberazione di Venezia il 25 aprile, ritornò a Roma. Ma la sua attività fotografica oramai veniva sempre più messa in discussione dall’apertura concorrenziale di molte agenzie fotografiche. Il monopolio dell’immagine fotografica dettato dall’Istituto Luce oramai andava sempre più in frantumi. Sempre meno immagini furono prodotte, fin quando l’Istituto non sciolse definitivamente il servizio.
Ma proprio alcune delle ultime immagini prodotte dall’Istituto furono le fotografie che seguirono la seduta inaugurale della Costituente, riprendendo le varie personalità politiche che affluivano a Roma, per partecipare ai lavori di quell’assemblea che avrebbe dato una costituzione democratica all’Italia repubblicana.

Breve Bibliografia

Chabod Federico, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino, Einaudi, 1961.
Colarizi Simona, L’opinione degli italiani sotto il regime (1929-1943), Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.
De Luna Giovanni, Mignemi Adolfo (a cura di), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
Griner Massimiliano, La “banda” Koch. Il Reparto Speciale di Polizia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
Insolera Italo, Roma fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma, Editori Riuniti, 2002.
Katz Robert, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Roma, Editori Riuniti, 1996.

Lualdi Aldo, La banda Koch. Gli anni bui della Repubblica di Salò, in Storia Illustrata, Anno XVI, N.171, Febbraio 1972, pag.86-98.
Lualdi Aldo, La banda Koch. Un aguzzino al servizio del regime, Milano, Bompiani, 1972.
Mannucci Stefano, Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. 1940-45, Roma, 2010
Mignemi Adolfo, Storia fotografica della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
Mignemi Adolfo, La seconda guerra mondiale (1940-1945), Roma, Editori Riuniti, 2000.
Olla Roberto, Combat film, Roma, RAI-ERI, 1997.
Troisio Armando, Roma sotto il terrore nazi-fascista, Roma, Mondini, 1944.

Note:

(1) Agli occhi della popolazione romana, durante i mesi dell’occupazione tedesca, Pio XII apparve come il «defensor urbis», e la Chiesa acquisì un prestigio che avrebbe assunto un peso decisivo nelle vicende politiche del dopoguerra. A tal proposito, vedi Chabod F., L‟Italia contemporanea, pp. 124-125.
(2) Furono circa  3.500.000 le fotografie di guerra scattate dalle PK sui vari fronti, nelle retrovie o nei paesi occupati dalle truppe tedesche, fra il 1939 ed il 1945. Per l’archiviazione di tali fotografie esistono tre fondi: il Bild 101 I, che raccoglie le fotografie scattate dalle compagnie di propaganda dell’esercito e dell’aviazione; il Bild 101 II, che raccoglie quelle provenienti dalla marina; il Bild 101 III, che infine detiene la produzione delle compagnie di propaganda della Waffen-SS. A causa delle ingenti perdite subite durante la guerra e nel dopoguerra, il fondo Blind 101, conservato a Coblenza, è composto oggi da circa 1.100.000 fotografie restituite dagli Stati Uniti al Bundesarchiv nel 1962.
(3) De Luna Giovanni, Mignemi Adolfo (a cura di), Storia fotografica della Repubblica sociale italiana, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.
(4) Identica rappresentazione fotografica fu effettuata nella città di Milano, dove gli operatori del Luce ed i fotografi privati della Publifoto, ripresero spesso i lavori di trebbiatura del grano negli orti di guerra sistemati nel centro della città ed all’ombra del Duomo. Vedi Stefano Mannucci, Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. Italia 1940-45.
(5) Per le violenze commesse da Pietro Koch e la sua banda durante il periodo della loro permanenza a Roma, vedi Griner Massimiliano, La “banda” Koch. Il Reparto Speciale di Polizia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; Lualdi Aldo, La banda Koch. Un aguzzino al servizio del regime, Milano, Bompiani, 1972.
(6) Per uno studio sistematico sugli avvenimenti di quei giorni a Roma, concernente sia la dinamica dell’attentato di via Rasella sia le violenze nazi-fasciste, vedi Troisio A., Roma sotto il terrore nazi-fascista e Katz R., Morte a Roma.
(7) Vedi Giorni di gloria, regia di Luchino Visconti, Marcello Pagliero, Giuseppe De Santis, Mario Serandrei. Produzione Titanus, ANPI, 1945.
(8) Vedi Mannucci Stefano, Luce sulla guerra, op. cit.
(9) Vedi Olla Roberto, Combat film, Roma, RAI-ERI, 1997.
(10) Per le immagini relative a Caruso vedi ancora Giorni di Gloria.
(11) Le fotografie del processo e della fucilazione di Koch sono state pubblicate con l’articolo Lualdi Aldo, La banda Koch. Gli anni bui della Repubblica di Salò, in Storia Illustrata, Anno XVI, N.171, Febbraio 1972, pag.86-98.

Originariamente pubblicato sul portale Storia XXI Secolo