giovedì 8 dicembre 2016

Vita e destino di Vasilij Grossman

Vasilij Grossman conosceva la guerra. L'aveva vista da vicino, quando - negli anni che andarono dall'agosto del 1941 fino al 1945 - era stato corrispondente dal fronte del giornale Stella Rossa.
A seguito dell'Armata Sovietica, aveva raccontato il conflitto nei taccuini neri che portava sempre con sé e su cui annotava le sue impressioni.
Finita la guerra iniziò a scrivere il romanzo per cui impiegò quasi dieci anni.
E quando conclusa la stesura - nell'ottobre del 1960 - inviò il romanzo ad una rivista, non immaginava forse cosa sarebbe successo dopo.
Il caporedattore della rivista avvisò i funzionari politici per sottoporre il romanzo alla loro visione. Nel febbraio del 1961, due agenti del KGB visitarono l'abitazione dello scrittore e sequestrarono il manoscritto, le carte carbone, le minute, i nastri della macchina da scrivere. Grossman protestò - inviando anche una lettera al segretario del Partito Nikita Krusciov -, ma dopo diversi mesi di silenzi gli fu comunicato che il suo libro non sarebbe stato pubblicato né restituito.
Ma, nonostante ciò, una copia del libro era stata salvata dallo scrittore. Grossman l'aveva consegnata all'amico Limpkin per un avere un suo giudizio. E fu proprio Limpkin a riuscire a far arrivare in occidente il romanzo di Grossman fino a Losanna, dove venne definitivamente pubblicato nel 1980 da una casa editrice svizzera. Ormai Grossman era morto da diversi anni, da quel giorno del settembre 1964 in cui la sua vita si spense a seguito di una malattia da cui non aveva avuto né cure né aiuto per sconfiggerla, e con l'animo rammaricato di non sapere se il suo romanzo sarebbe mai stato pubblicato.
Bisognò aspettare ancora qualche altro anno, per la precisione il 1990, per vedere pubblicata la copia integrale del romanzo di Grossman - che lui stesso aveva dato all'amico Viaceslav Ivanovic Loboda - basata sulle correzioni autografe che lo stesso autore aveva apposto. Ed è dal testo integrale in russo del romanzo che la casa editrice Adelphi dal 2008 ha curato la traduzione dell'edizione da essa pubblicata.
Ma cosa narrava questo romanzo per condannare Grossman - fino a quel momento considerato un apprezzato scrittore e reporter di guerra, e dopo di allora giudicato un autore antisovietico - ad un simile destino?
Ambientato fra il luglio del 1942 ed il febbraio del 1943, e diviso in tre parti, il romanzo narra l'assedio e la battaglia di Stalingrado, le storie delle persone coinvolte nel dramma di quei mesi, la ferocia dei lager nazisti, l'orrore della guerra che entra nella quotidianità della vita, la sopravvivenza sotto le macerie e la distruzione, i rapporti familiari, i destini che s’incrociano, i figli che partono per la guerra e l'attesa delle madri e la dolorosa scoperta del sapere che i figli non torneranno più vivi, il dolore della perdita e della morte, la voglia di non inchinarsi al potere, ai suoi compromessi, ai sospetti ed alle accuse di tradimenti, di rimanere fedeli ai propri ideali, il desiderio di vivere nonostante le tenebre dei tempi, nonostante l'odio ed i regimi. Sono scene che costringono a posare il libro ed interrompere la lettura tanto si rimane colpiti dentro da quello che lo scrittore scrive o dalle parole che lui usa per descrivere la tragedia in atto. E dalle pagine emerge anche la denuncia di due totalitarismi che, per quanto si professassero nemici ed in guerra l'un con l'altro, erano identici nel principio e nell'essenza dello Stato partito, come Grossman lascia trasparire da un dialogo in cui Liss - un comandante responsabile del lager nazista - disse al prigioniero Mostovksoj: «Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? Il mondo non è forse pura volontà anche per voi? [...] Non c’è nessun abisso tra di noi! Se lo sono inventato. Siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno “Stato partito”.»
Vita e destino è considerato un romanzo il cui respiro epico è stato spesso paragonato a Guerra e Pace di Tolstoj, ma con una scrittura secca, perfetta e completa nel suo essere concisa e spesso avvolta da un'infinita poesia. Un romanzo sull'individuo ed il proprio destino, sul totalitarismo e sulla guerra. Un romanzo la cui lettura può forse risultare difficile, ma rimane senz'altro indispensabile. Un romanzo che - nel narrare gli orrori della guerra e la ferocia della dittatura - lascia tuttavia trapelare dalle sue pagine uno struggente inno alla vita. E vengono in mente le parole con cui Anna Semenova - la madre ebrea di Strum - decide di terminare la lettera che - di fronte all'evenienza della sua morte per mano dei nazisti - scrive al figlio: «Viktor, mio caro... È l'ultima riga dell'ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre...»




sabato 19 novembre 2016

I trilobiti di Breece D’J Pancake

Aveva ventisei anni Breece D'J Pancake quando morì per un colpo di pistola - sparato da lui stesso - in un giorno di aprile del 1979. Il suo vero nome era Breece Dexter Pancake, ma quando nel 1976 il mensile americano Atlantic Monthly pubblicò il racconto Trilobites, qualcuno sbagliò a scrivere il suo nome e lui - come racconta Giacomo Papi nell'introduzione all'edizione italiana edita da Isbn Edizioni - decise di lasciarlo lo stesso scritto a tal modo. Perchè Pancake scriveva racconti. Nato a South Charleston, nel West Virginia, i suoi racconti erano spesso ambientati proprio in queste terre. Con una scrittura scarna, asciutta, minima ed essenziale, ma capace di produrre immagini e sensazioni vivide, in questi racconti emerge la natura spesso aspra ed isolata, gli animali viventi ed i fossili del passato, la desolazione e lo splendore dei paesaggi, il tempo atteso e quello che sembra essersi fermato per sempre, il desiderio di fuggire anche se alla fine si rimane allo stesso posto, scene di vite perdenti e fragili, quelle stesse vite dai cui spesso rimane impressa addosso al lettore un vago senso di solitudine.
Una solitudine che permea i pensieri ed i gesti dei protagonisti dei racconti, che affiora nelle descrizioni delle terre immense e desolate, che pervade le pagine del libro. Soltanto qualche anno dopo la sua morte, per la precisione nel 1983, i suoi racconti vennero pubblicati in una raccolta postuma. Pubblicati per la prima volta in Italia dalla casa editrice Isbn nel 2005 - e successivamente in edizione economica nel 2010 -, i dodici racconti sono stati nel 2016 ristampati dalla Minimum Fax - casa editrice sempre attenta ad offrire ai lettori italiani opere interessanti - con la nuova traduzione di Cristiana Mennella. Un'occasione per leggere i racconti di un'autore che, osannato oltreoceano - citato da Tom Waits come suo autore preferito, ed il cui debutto è stato paragonato per talento da Joyce Carol Oates ad Hemingway -, nel corso degli anni è diventato uno scrittore di culto.


mercoledì 2 novembre 2016

La notte in cui uccisero un poeta. In memoria di Pier Paolo Pasolini



Che fossero state più persone ad uccidere Pier Paolo Pasolini, in quella notte tra il primo ed il due novembre del 1975, all'Idroscalo di Ostia, lo si seppe sin da subito.
Fu uno degli abitanti di quelle misere baracche a confidare a Furio Colombo - all'epoca collaboratore per La Stampa - come quella sera vi fossero più persone a colpire a morte Pasolini.
Fu Oriana Fallaci a scriverlo nella sua contro-inchiesta pubblicata sulle pagine dell'Europeo dopo aver raccolto prima alcune testimonianze riportanti la presenza di due motociclisti - che avrebbero partecipato all'aggressione colpendo il poeta anche con una catena - e poi il racconto rilasciato da un ragazzo di vita ad un collaboratore della rivista sui drammatici eventi di quella notte.
Fu la perizia del medico legale nominato dalla parte civile ad individuare la presenza di più assassini nelle ferite sul corpo di Pasolini, a circostanziare come le stesse fossero state impartite dalle diverse persone che avevano partecipato al massacro e non potessero essere imputabili ad una colluttazione fra due singoli individui, come se le stesse ferite testimoniassero le modalità in cui il massacro fu perpetrato e che si concluse quando gli aggressori passarono con una macchina sopra il corpo del poeta che giaceva inerme sullo sterrato dell’Idroscalo, causandogli la frattura delle costole e dello sterno, lacerandogli il fegato e facendogli scoppiare il cuore.
Furono i fratelli Braciola a confidare ad un poliziotto in incognito la loro partecipazione a quel massacro, pur poi ritrattando nei giorni successivi ciò che avevano affermato con la motivazione che avevano detto di aver ucciso Pasolini soltanto per farsi grandi agli occhi del loro interlocutore.
Fu la stessa macchina Alfa GT 2000 di Pasolini a testimoniare in maniera impeccabile che non poteva essere stata essa a passare sopra il corpo del poeta, non avendo alcun evidente danno sulla coppa dell'olio e sulle parti della vettura che si diceva avessero sormontato il suo corpo. 
Fu ancora una volta l'Alfa GT 2000 a rendere chiara la presenza di almeno un'altra persona, ostentando quella macchia di sangue sulla tettoia dal lato del passeggero, come se - oltre all'autista - qualcun altro fosse salito sulla vettura appoggiando la mano sulla carrozzeria per aprire la portiera.
Fu la presenza di un plantare e di un maglione dentro la vettura di Pasolini - non appartenente in alcun modo al poeta e nemmeno presente nella stessa vettura nei giorni precedenti all'omicidio - ad insinuare il dubbio che quella notte sul luogo non vi fosse soltanto Pelosi.
Fu lo stesso corpo di Pelosi a confermare che non poteva essere stato lui a ferire in quel modo brutale Pasolini. Tutte le persone si chiedevano come potesse quel corpo mingherlino aver martoriato il corpo atletico di Pasolini con tale furia, come potesse quel corpo sostenere un'aggressione ed una colluttazione come da lui descritta senza riportare alcuna contusione, alcuna ecchimosi, alcun livido, alcuna traccia di fango o sangue del poeta addosso ai propri vestiti ed alla propria pelle
Fu il presidente Moro - che presiedeva il processo contro Pelosi apertosi il 2 febbraio 1976 presso il Tribunale per i minorenni di Roma - a pronunciare, il 26 aprile 1976, la sentenza dichiarando Pelosi colpevole di furto aggravato, atti osceni ed omicidio volontario in concorso con ignoti, precisando come dagli atti emergesse in modo imponente ed univoco la prova che quella notte all'Idroscalo Pelosi non fosse stato solo e fossero state più persone - restate sconosciute - ad uccidere Pasolini. 
Ma nonostante tutti questi fatti portassero alla conclusione che Pasolini era stato ucciso da un gruppo non identificato, i successivi dibattimenti, nel secondo e nel terzo grado di processo, emisero la sentenza che fosse stato solo Pelosi ad uccidere il poeta in quella notte all'Idroscalo, sostenendo ed avallando la tesi che si fosse trattato di un'omicidio a sfondo sessuale.
E quest’ultima fu la versione ufficiale con cui si cercò di archiviare nella memoria della nazione il massacro perpetrato nei confronti di Pasolini.
Ma tale tesi non ritrovava riscontro nella realtà. Troppi indizi ed evidenze la screditavano. 
Dubbi, menzogne, omissioni, segreti, errori degli inquirenti giunti sul luogo del delitto e durante la conservazione dei reperti e della vettura di Pasolini, indizi e testimonianze che furono raccolti e raccontati nel 1995 da Marco Tullio Giordana nel suo film Pasolini, un delitto italiano.
Negli anni successivi, a partire dal 2005, lo stesso Pelosi ritrattò più volte quella prima versione, raccontando come non fosse stato solo in quella notte, pur non specificando mai fino in fondo cosa avvenne e chi furono le persone presenti oltre a lui all'Idroscalo.
Nel luglio del 2005, il regista Martone girò un documentario in cui Citti raccontava la testimonianza di un pescatore - da lui raccolta - che non soltanto affermava la presenza di più persone sul luogo del delitto, ma anche che quella sera all'Idroscalo vi fossero due automobili e non solo quella di Pasolini. Citti descriveva le scene che, pochi giorni dopo la morte del poeta, lui stesso aveva ripreso quando si era recato all'Idroscalo, munito di una macchina da presa, filmando una ricostruzione dell’accaduto e mostrando come Pasolini fosse forse stato investito dalla seconda macchina, in una dinamica che metteva in dubbio la versione ufficiale fino a quel momento diffusa ed accreditata.
Ad avallare la tesi che quella notte fosse stata un'altra Alfa GT 2000 - simile a quella del poeta - a passare sopra il corpo di Pasolini, furono i racconti di alcune persone secondo cui la macchina danneggiata - sotto la cui scocca risultava fossero presenti residui di capelli, sangue e fango -, nei giorni successivi all'omicidio di Pasolini, fu fatta visionare ad alcuni carrozzieri di Roma per far aggiustare i danni subiti dalla stessa nel sormontare il corpo del poeta.
Ma nonostante ciò, le riaperture del caso non hanno ancora mai portato ad una definitiva verità su chi fu davvero ad uccidere Pasolini.
E proprio per avere un nuovo utile contributo nel cercare di capire cosa avvenne quella notte, è doveroso approfondire la lettura dell'interessante saggio di Simona Zecchi Pasolini, massacro di un poeta - edito nel 2015 da Ponte delle Grazie. L'autrice ha condotto un'inchiesta rigorosa cercando di individuare nuovi indizi, utilizzando documenti inediti, testimonianze e fonti trascurate nei dibattimenti, analizzando le fotografie scattate all'epoca del rinvenimento del corpo martoriato di Pasolini - che evidenziano i colpi a lui inferti - per anni rimaste inedite. Nella rigorosa ricerca condotta lungo gli ultimi cinque anni, l'autrice non soltanto smonta la tesi dell'omicidio sessuale, ma lascia intravedere sprazzi di una verità che lentamente affiora dalle tenebre di quella notte, facendo affiorare nuovi elementi che potrebbero aiutare ad individuare quali furono i moventi e chi partecipò a quel «massacro tribale» come definito dalla stessa autrice, ed il cui significato «trivalente» è stato spiegato durante un'intervista da lei rilasciata a Giuseppe Mellozzi per Temporeale.info: «tribale per la violenza e la precisione inaudite perpetrate sul corpo del letterato; tribale per la quantità delle persone coinvolte e accorse quella notte (almeno tredici ma anche di più); tribale per la forza e la ferocia con cui questo massacro ha continuato a perpetrarsi influenzando in gran parte la percezione della sua opera anche a volte dei più appassionati pasoliniani.»
Il giorno dei funerali di Pasolini, Moravia, durante la sua commossa e solenne orazione funebre, ricordò come l'Italia, con la morte di Pasolini, avesse perso un simile, un poeta, un romanziere, un uomo prezioso, e descriveva un'immagine che lo perseguitava, l'immagine di «Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo paese come Pasolini stesso avrebbe voluto.»
Come disse Moravia nell'orazione di «poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.»
Se l'Italia non è riuscita negli anni a difendere e preservare il suo poeta, sarebbe però auspicabile e ormai doveroso che questa nazione almeno finalmente renda giustizia alla sua memoria.


giovedì 20 ottobre 2016

La Camera Chiara di Roland Barthes

 

Era l'ultimo anno d'università. Mi aggiravo fra gli scaffali di una libreria - nel settore Fotografia - alla ricerca di qualche libro che potesse essere di aiuto per la tesi che stavo preparando. 
Mi sarei laureato alla facoltà di Scienze Politiche con una tesi in Storia Contemporanea. L'argomento che avevo scelto di trattare era la produzione fotografica dell'Istituto Luce durante il ventennio fascista. Volevo cercare di analizzare e narrare come la fotografia avesse rappresentato la realtà dell'epoca e quale fosse stato l'uso politico che il regime fascista aveva effettuato di quelle fotografie. 
Una volta a settimana mi recavo presso l'Istituto Luce per visionare il materiale fotografico presente nei loro archivi. Avevo preso anche l'abitudine di recarmi presso l'Archivio Centrale di Stato alla ricerca di quelle disposizioni emesse nel corso del ventennio sulla fotografia per cercare di analizzare le eventuali finalità politiche che il regime fascista - attraverso i ministeri preposti che si erano succedui negli anni fino alla istituzione del Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) - assegnava alla fotografia.
E fu così che - mentre lo sguardo scorreva sui volumi presenti sullo scaffale - trovai La camera chiara di Barthes. 
Avevo letto su altri libri alcune citazioni di questo saggio che mi avevano spinto ad annotarlo fra i titoli da leggere. Sul tram di ritorno a casa aprii le pagine ed iniziai a leggere:
Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l'Imperatore». 
Era la primavera del 1979 quando Roland Barthes iniziò a scrivere queste parole.
Una serie di note, disgressioni, riflessioni - come recita nella quarta di copertina del libro - su cosa fosse la fotografia.
Colto da un desiderio «ontologico» - come scrisse lui stesso - Barthes voleva a ogni costo sapere cos'era la fotografia «in sé», attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.
Dopo aver scoperto che ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente Barthes osservava come una fotografia possa essere l'oggetto di tre pratiche - fare, subire, guardare - a cui corrispondono tre soggetti presenti nella fotografia: l'Operator, che è il fotografo; lo Spectator che è la persona che osserva la fotografia; e lo Spectrum ossia chi è  fotografato. 
Ma il momento della lettura che suscitò in me maggior interesse fu quando Barthes iniziò a riflettere e discorrere sul rapporto che si instaura fra la fotografia e l'osservatore. 
Nelle fotografie spesso compaiono dettagli - di persone o luoghi od altri infiniti dettagli - che il fotografo in quel momento non ha notato o - qualora notati - non ha potuto fare a meno di escludere, e che emergono nella loro presenza a connettere e indicare altri significati nell'immagine stessa.
Perché alcune fotografie attraevano Barthes provocando in lui gioie sottili ed altre invece lo lasciavano talmente indifferente fino a fargli provare alla lunga una sorta di avversione od irritazione? 
Cosa rende una fotografia attraente e cosa la rende indifferente o peggio ancora irritante?
Barthes, analizzando alcune fotografie, arrivò a definire come in ogni fotografia coesistano due elementi: lo studium, che consiste nell'interessamento culturale o personale, proveniente dall'osservatore e rivolto verso la fotografia, ed il punctum, una sorta di ferita provocata da una freccia che parte dalla fotografia e raggiunge l'osservatore a carpire la sua attenzione. È la presenza del punctum, di quel particolare che mi attrae, a dare un nuovo senso ed un nuovo valore alla fotografia che osservo.
Dopo aver riflettuto sull'indefinita essenza del punctum, mi colpirono ancor più le riflessioni di Barthes quando iniziò a riordinare alcune fotografie della madre morta, risalendo a poco a poco il tempo assieme a lei, cercando la verità del volto che avevo amato fin quando finalmente non la scoprì in una vecchia fotografia cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d'un color seppia smorto in cui la madre era ritratta da bambina.
Proprio osservando quella fotografia Barthes ritrovò la propria madre.
Sono pagine intense di riflessioni sulla madre, sulla morte ed il dolore, sulla malattia e sulla cura verso la persona cara, sulla fotografia e la sua essenza, sul lutto che non cancella il dolore, sul Tempo che elimina l'emozione della perdita (non piango), e basta.
E forse l'essenza della fotografia, secondo Barthes, è che essa dice ciò che è stato, ratifica ciò che essa ha ritratto. E così ecco che dalla fotografia parte allora un nuovo punctum che è il Tempo. 
Queste furono le note e le riflessioni che all'epoca più mi colpirono, insegnandomi un nuovo modo di pormi nei confronti della fotografia e nel suo metodo di studio. 
Negli anni avrei letto altre volte quelle note e riflessioni di Barhes, e spesso avrei trovato nuovi significati magari sfuggiti a quella prima lettura, ma sarebbe sempre rimasta ferma la convinzione che La camera chiara rimanga un saggio caposaldo, un testo fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla fotografia ed entrare nel suo misterioso ed affascinante mondo.

lunedì 26 settembre 2016

Le forche della Libia



La forca era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati dei quattordici ca­potribù erano ostentati alla popolazione, che li os­ser­vava rimanendo addossata contro le mura dei pa­lazzi ai margini della piazza.
«La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cen­ciosi, doveva servire», come ha scritto Del Boca, «per da­re un esempio salutare ai “ribelli”» (1).
Era il dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale, dagli interessi economici dei gruppi indu­striali e finanziari alle missioni civilizzatrici benedette dai vescovi, dai desideri bellicisti dei nazio­na­listi al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda» necessaria per rista­bilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva proba­bilmente contribuito anche la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propa­ganda, d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con cer­tezza ogni collusione fra turchi ed arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe potuto unire le popolazioni locali, Galli as­sicurava che i soldati italiani sarebbero stati si­cura­mente accolti come liberatori.
Ai primi dell’ottobre del 1911, così, circa trenta­cinquemila uomini, al comando del generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche ed iniziarono a prendere possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici dell’esercito italiano furono istituiti nel 1896 (2), la guerra italo-turca rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili applicazioni della fotografia all’arte militare».
La Sezione Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un labora­torio fotografico. Successivamente, furono create al­tre due squadre che si stabilirono a Bengasi e a Zuara (3).
I fotografi produssero istantanee di carat­tere ope­rativo e tattico, intervenendo anche «dall’alto di di­rigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati pre­cisi alle batterie di cannoni ed immagini dei dispo­sitivi militari degli avversari arabo-turchi, contri­buendo così, per la prima volta nella storia delle imprese militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre fotografie, invece, docu­mentavano gli armamenti a disposizione delle truppe italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito e del conflitto.
Accanto alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia, si aggirarono anche i corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca Comerio, che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati, «documentare l’eroismo e la su­pe­riorità militare e morale delle truppe italiane» (4).
La fotografia diveniva uno strumento di enfatiz­za­zione della guerra come esperienza eroica e virile. I sog­getti maggiormente rappresentati e diffusi erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama esotici. La tipologia della foto­grafia ricordo, in molte occasioni, era ancora la rap­presentazione fotografica più diffusa. Molte fo­to­grafie furono riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari corrispondenti. Nel 1913, i Fratelli Treves pubblicarono l’Album Portfolio della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto essenzialmente dalle fotogra­fie pubblicate sulle pagine della rivista L’Illustra­zione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra svolta. Se simili pubblicazioni rimane­vano ristrette ad un uso riservato alle classi più ab­bienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco al­fabetizzati, furono pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline per raccontare l’e­sperienza in Libia.
Ma l’immagine della guerra serena, dell’incolu­mità e della potenza delle truppe italiane, fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà. La mattina del 23 ottobre, infatti, le truppe ita­liane furono at­taccate tra forte Messri e Sciara Sciat. A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui par­teciparono civili e guerriglieri, uomini e donne, ca­ratterizzata da una spietata violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggi­mento furono accerchiate e in poche ore massacra­te. Del Boca ha quantificato in 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimen­ti (5). In al­cune fotografie, si ve­devano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul terreno (6). I corpi dei bersa­glie­ri morti, infatti, giacevano «insepolti ovun­que; mol­ti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti» avevano «cucito gli oc­chi con lo spago; molti» era­no «stati messi sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltis­simi» avevano «avuto le parti genitali tagliate» (7). Le im­magini del massacro ini­ziarono a circolare an­che in patria, spesso attraver­so le cartoline spedite dagli stessi soldati. Per cerca­re di limitare la diffu­sione di simili immagini, nel dicembre del 1911, Giolitti in­viò il seguente tele­gramma al prefetto di Milano:
«Consta che i corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità commesse dai Tur­chi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone com­prendere assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione» (8).
Se le immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando in colonia. In alcune cartoline il plotone di esecuzione si era mes­so in posa per il fotografo, disponendo ai propri piedi i corpi dei civili fucilati. Emblematica era la didascalia che così recitava:
«La fucilazione degli arabi, che a tradimento as­salirono alle spalle gli eroici bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat».
In altre cartoline, invece, era ripreso il mo­mento della preparazione delle esecuzioni, ritraen­do i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono i colpi a tra­dimento» contro il reggimento «in attesa di essere fucilati». La didascalia e la cartolina, come ha nota­to Mignemi, confermavano più o meno inconsape­vol­mente «il carattere di esecuzione sommaria» di si­mili fucilazioni, essendo le vittime state «prescel­te perché trovate in un edificio», senza che fosse «sta­to istruito nei loro confronti un procedimento per accertare le responsabilità reali».
Lo sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie com­messe dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive depor­tazioni dei sopravvissuti alle re­pressioni.
Furono ol­tre quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscri­minate avvenute nei tre giorni che segui­rono lo scontro di Sciara Sciat. I soldati italiani in­cendiarono i villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono le donne e massa­crarono gli anziani. Questo odio veniva alimentato dalla continua propaganda, che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione».
La violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate le tesi di chi aveva pre­visto una facile accoglienza dei soldati italiani da parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ri­creare un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana, al fine di mantenere salda l’adesione al conflitto. La censura italiana iniziò a cer­care di celare gli eventi di repressione che im­per­versarono in quei giorni, ma confrontando diver­se fon­ti, si quantificarono in oltre quattromila le ese­cuzioni sommarie ed indiscriminate perpetrate con­tro la popolazione civile nei tre giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica politica e di denuncia dei crimini di guerra. Le fotografie delle repressioni ita­liane erano documenti con cui l’opposizione po­teva testimoniare le proprie argomentazioni politi­che e la propria protesta.
Il giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari, un opuscolo di de­nuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotogra­fate (9), rappresentando un atto di accusa contro la politica coloniale di Giolitti ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volu­me, si susseguivano le immagini più atroci della re­pres­sione perpetrata contro la popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rap­presaglie, le fucilazioni di massa, i processi somma­ri, gli incendi e le razzie commesse nei vil­laggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di quell’ingiu­sta e spietata guerra» (10).
La fotografia, infatti, testi­moniò la forca eretta nella Piazza del Pane a Tripoli per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al socialista Scalarini di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al pubblico italiano le forche a più posti che compone­vano macabri alberi di Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava e educava il traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi e «le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestir­pabili».
L’esposizione in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’effi­cienza della propria giustizia. La forca diventava al­lo stesso tempo strumento di repressione e di inti­midazione. Anche dopo la firma del trattato di pace, l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il pri­mario strumento per cercare di dominare l’imper­versante ribellione nei territori libici. Le immagini delle forche accesero presto anche il dibattito parla­mentare sulla politica coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta parla­mentare a de­nunciare le atrocità commesse dall’e­sercito italiano in nome della presunta civilizzazio­ne. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre 1913, ave­va pubblicato una serie di foto­grafie che documen­tavano le impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta del Parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui de­nunciava e condannava la vio­lenza della politica coloniale del governo.
«Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande mis­sione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col ri­spettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […]
Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi. […]
Io mi domando se siamo in Italia, e se il governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia» (11).
Ma nonostante le denunce e le critiche dell’oppo­sizione, le esecuzioni capitali continuarono ad esse­re emesse, spesso senza che le vittime fossero state giudicate da un giusto processo, condannate colpe­voli da sentenze a volte prive di reali motivazioni.
E così continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impicca­gioni. Interessante, in merito, è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia (12), un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931. Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò una serie di fotografie a diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di re­pressione contro la guerriglia.
La repressione in Libia, durante il fascismo, di­venne di anno in anno sempre più sistematica. Al fine di reprimere la resistenza che ancora imperver­sa­va nella Senussia, e per cercare anche di inter­rom­pere il legame che intercorreva fra le popolazio­ni del Gebel cirenaico e la guerriglia, Badoglio e Gra­ziani fecero deportare circa 80.000 civili per es­se­re poi confinati nei campi di concentramento del­la Sirtica (13).
Il controllo del regime fascista sulla fotografia, tuttavia, divenne più capillare e sistematico. Diffici­le trovare nelle fotografie ufficiali scene di repres­sione. Ma la fotografia privata, invece, spesso do­cumentò l’efferatezza delle impiccagioni, testimo­niando anche il rituale preparato per ostentare l’im­piccagione di Omar el Muktar (14), nel campo di con­centramento di Soluch, davanti ai notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager. Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri, infatti, i condannati re­clusi in diversi campi di detenzione furono condotti sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condan­na.
«L’impiccagione del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti a ventimila deportati», concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e «l’efficien­za degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero «state scatenate in Etiopia» (15).
E fu proprio durante la guerra d’Etiopia che la fotografia fu as­sunta a divenire un importante stru­mento dell’imperialismo fascista.



Note:

(1) Vedi Del Boca A.,  Italiani, brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, p. 112.
(2) Il 1 aprile 1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III Reggimento Genio a Roma.
(3) Vedi Rosati A., Immagini delle campagne coloniali. La guerra Italo-Turca 1911-1912, Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000.
(4) Vedi Causa C., La guerra italo-turca e la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, Salani, Firenze, 1913.
(5) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(6) Vedi Palma S., L’Italia coloniale, op. cit., pp. 76-79.
(7) Vedi Piccioli F., Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano, 1974, p. 26.
(8) Archivio di Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefet­tura», I vers., c. 567, telegramma cifr. N. 31498 del 5 dicembre 1911.
(9) Vedi Valera P., Le giornate di Sciarasciat fotografate, Stabilimento tipografico Borsani, Milano, 1911. Le immagini delle fucilazione e delle rappresaglie furono testimoniate anche da altri fotografi. A tal proposito vedi AA.VV.,…Ausonia in­tanto ha una colonia. Immagini del colonialismo italiano, Artegrafica Bolzonella, Padova, 1985; Angrisani A., Immagini della guerra di Libia, Lacaita, Manduria, 1997.
(10) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit.,  p. 111.
(11) Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557.
(12) Vedi Labanca N., (a cura di), Un nodo. Immagini e do­cu­menti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Pietro Lacaita, Roma Bari, Manduria 2002, pp. 5-114.
(13) Del Boca ha ricordato come nel biennio 1930-31, dai 40.000 ai 60.000 abitanti del Gebel morirono «nel corso delle azioni repressive e per il tifo petecchiale contratto nei campi di concentramento». Sempre Del Boca ha ricordato come lo stes­so Badoglio riconobbe l'estremo rigore della misura, ma anche come ne giustificò la necessità, sostenendo come essa dovesse essere perseguita «sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Vedi Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale II, La conquista dell'Impero, Oscar Monda­do­ri, Milano, 2001, p. 15; Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., pp. 165-182.
(14) Fu il fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del 1931, riprendendo il leader della resistenza pirenaica accerchiato dai soldati del 7° squa­droni savari guidato dal capitano Bertè.
(15) Vedi Del Boca A., La conquista dell'Impero, op. cit., p. 16.






Tratto da La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento dell'imperialismo fascista


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