martedì 19 luglio 2016

Memoria del bombardamento del 19 luglio 1943



Le prime bombe su Roma iniziarono a cadere nella mattina del 19 luglio.
I primi edifici ad essere colpiti furono gli edifici di Medicina Clinica all’interno del complesso universitario.
Le esplosioni si susseguirono, devastando edifici universitari ed abitazioni civili.
«Ondata dopo ondata, i duecentosettanta bombardieri alleati stavano polverizzando i quartieri meridionali di Roma da un’altitudine “di venti angeli” – ventimila piedi, secondo il linguaggio del Corpo d’armata aereo americano – e fuori della portata della contraerea italiana». (Katz Robert, Roma città aperta. Settembre 1943-giugno 1944).
L’ospedale del Policnico si riempì «con l’arrivo di feriti e moribondi, centinaia di vittime in preda a emorragie causate dalle bombe, uomini, donne e bambini, che poco prima giocavano nelle strade del quartiere proletario di San Lorenzo». (Katz Robert, op. cit.)
L’obiettivo dell’attacco aereo era lo scalo di smistamento ferroviario nel quartiere di San Lorenzo.
Il giorno stesso, gli alleati stilarono un rapporto di valutazione dei danni, in cui si asseriva che «la missione si era rivelata un intervento chirurgico perfettamente riuscito» e senza danni «rilevati nella città stessa se non per pochi edifici nelle immediate vicinanze dello scalo di San Lorenzo». Ma come ha ricordato Katz, «le “immediate vicinanze” erano tuttavia una delle zone residenziali più popolose della città, e nei “pochi edifici” morirono oltre mille romani, mentre migliaia furono i feriti». (Katz Robert, op. cit.)
«Me ne vado verso casa nostra e in mezzo alle macerie ci sta un silenzio che fa impressione. Un silenzio che ha sotterrato San Lorenzo con tutto il camposanto. Che ha impastato le case e le lapidi in una sola maceria silenziosa, che ha azzittato i vivi e i morti. La gente sta tutta in mezzo alla strada e nel mentre che me ne vado verso il palazzo mio passo su via dei Reti dove c’è il carcere minorile. Pare che le guardie so’ scappate senza manco aprì le celle dei ragazzini reclusi, mentre a via dei Sabelli so’ un’ottantina i morti dell’orfanotrofio. […] Io, intanto, che è finito il bombardamento… giro… giro… ma non trovo più il palazzo nostro. Per mezz’ora me ne vado avanti e indietro dalle mura che tengo di riferimento e poi mi accorgo che ci sto camminando sopra». (Celestini Ascanio, Storie di uno scemo di guerra)
Gli operatori dell’Istituto Luce documentarono i danni dei bombardamenti lungo viale Regina Margherita, fotografando i tram divelti, gli edifici colpiti quali l’Istituto di Sanità e la facoltà di Chimica situata all’interno della Città Universitaria.
I fotografi si aggirarono poi a riprendere le abitazioni distrutte nel quartiere San Lorenzo o lungo via Tiburtina. Gli operatori del Reparto Guerra entrarono anche nel cimitero del Verano, a fotografare le tombe dan¬neggiate, riprendendo in primo piano la lapide della famiglia Pacelli, con i vasi per fiori sparsi sul terreno.
Anche il bombardamento della Basilica di San Lorenzo fu documentato, attraverso immagini scattate sia dall’esterno, a riprendere il portico e la facciata completamente distrutta, sia all’interno dello stesso edificio.
Gli operatori fotografarono un frate che si aggirava sperduto fra le panche divelte e le colonne abbattute, prima di ritrarre la principessa di Piemonte Maria Josè tra le macerie, arrivata sul luogo a constatare i danni.
Lo stesso giorno del bombardamento, il Minculpop dispose a tutti i giornali di Roma, di dedicare un’intera pagina «all’illustrazione storica, religiosa ed artistica della Basilica», ordinando loro di pubblicare le fotografie scattate dall’Istituto Luce, soprattutto quelle che documentavano «la facciata prima e dopo il bombardamento e con l’interno – riferentesi alla Basilica di S. Lorenzo e agli edifici colpiti dell’Università».
Ma l’icona di quella dolorosa giornata, rimase la fotografia con cui gli operatori dell’Istituto Luce ritraevano Pio XII a braccia aperte nel gesto di abbracciare e benedire la popolazione romana dopo i bombardamenti.
Per anni, quella fotografia fu assunta a simbolo di quella giornata, e diffusa con didascalie che appunto indicavano come la scena fosse stata ritratta nel quartiere di San Lorenzo di Roma.
Ma in realtà, la fotografia in questione fu scattata davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, ed era l’ultima fotografia di un’unica serie, realizzata probabilmente dopo il secondo bombardamento di Roma, avvenuto nella mattina del 13 agosto 1943, durante la visita che il pontefice effettuò a San Giovanni prima di recarsi nei quartieri colpiti.
I fotografi testimoniarono l’arrivo in macchina del pontefice nella piazza; poi ripresero Pio XII mentre camminava in mezzo «alla folla davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano»; infine lo fotografarono mentre, con le mani giunte, si concentrava in una preghiera circondato «dalla popolazione romana vittima dei bombardamenti».
I fotografi seguirono il pontefice avviarsi verso la propria automobile, e prima di accingersi a salire per partire via, Pio XII si voltò ancora una volta verso la popolazione, sollevando una mano in segno di benedizione, per poi aprire le braccia verso le persone che si stringevano a lui.
E fu in quel momento, che gli operatori dell’Istituto Luce scattarono la celebre fotografia che per anni sarebbe stata diffusa con l’errata didascalia.
Molti indizi confermano come la fotografia non fosse stata scattata nel quartiere di San Lorenzo.
Innanzitutto, le persone ritratte nella fotografia avevano i vestiti puliti e non presentavano alcuna ferita; mentre diversi testimoni ricordarono come, dopo il bombardamento, gli abitanti del quartiere di San Lorenzo avessero gli abiti bianchi dalla polvere e dai calcinaci, ed i volti stravolti dal terrore e dalla fatica.
Inoltre, gli stessi visi che osservavano Pio XII, mentre apriva le braccia, erano riconoscibili in molte altre fotografie scattate a San Giovanni, a testimoniare in maniera inequivocabile come anche quella fotografia appartenesse al medesimo servizio fotografico (Mannucci Stefano. Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. Italia 1940-45).
Pur essendo difficile appurare la causa che ha generato l’errore nella diffusione della fotografia, il messaggio contenutovi ha rivestito una notevole importanza nella costruzione dell’immagine di Pio XII all’interno della memoria storica della nazione, non soltanto nella rappresentazione degli anni di guerra, ma influenzando anche l’opinione pubblica nella discussione politica che animò i primi anni del dopoguerra.

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mercoledì 13 luglio 2016

La Grande Guerra fotografata

Gibelli ha giustamente notato come la Grande Guerra appaia sempre più «il grande spartiacque del nostro tempo, specialmente per quanto concerne la trasformazione delle strutture mentali, le forme della percezione e della comunicazione (1).»  Anche se spesso la rappresentazione iconografica ufficiale del conflitto mantenne dei tratti similari alle produzioni belliche precedenti, è giusto tuttavia notare come la guerra abbia amplificato e socializzato «la rivoluzione delle comunicazioni che si è compiuta fra Otto e Novecento. La guerra serializza e estende a milioni di uomini il nuovo modo di vedere, sentire, comunicare.» Tutte le grandi nazioni che parteciparono al conflitto crearono appositi servizi fotografici all’interno del proprio esercito. Se la Francia costituì la Section Photographique de l’Armée (2), ed in Gran Bretagna fu istituito il British Official Photo, anche all’interno dell’esercito italiano (3) furono organizzati i Servizi Fotografici che avrebbero dovuto effettuare la rappresentazione del conflitto in atto. Nel maggio 1915, in base alla ricostruzione effettuata da Della Volpe (4) esistevano all’interno dell’esercito italiano le seguenti squadre fotografiche:
«-1ª Squadra fotografica da campagna, comandata dal capitano Antilli, con sede ad Udine e a disposizione del Comando Supremo;
- 2ª Squadra fotografica da campagna, comandata dal sottotenente Gastaldi, con sede a Tricesimo e a disposizione della 2ª Armata;
- 3ª Squadra fotografica da campagna, comandata dal capitano Lancellotti, con sede a Cervignano e a disposizione della 3ª Armata.»  
Ogni squadra aveva a sua disposizione un’autovettura, ed era composta dall’ufficiale comandante, da tre fotografi, da un conduttore e da un meccanico. Come attrezzatura fotografica, le squadre erano dotate di macchine formato 13x18 e 18x24, oltre ad alcune camere a mano di formato minore. Il loro compito era di effettuare le ricognizioni panoramiche del terreno, oltre alla documentazione delle operazioni militari per fini prettamente storici. Oltre alle suddette squadre, furono mobilitate «4 squadre telefotografiche da montagna di cui due, la 1ª e la 2ª, erano rispettivamente a Verona (a disposizione della 1ª Armata) e a Tolmezzo (a disposizione del Comando Zona Carnia).» Le squadre erano someggiate ed erano composte da un ufficiale, tre fotografi, cinque soldati alpini e cinque muli. Come attrezzatura tecnica le squadre disponevano di un apparato telefotografico 24x30, di una camera a mano 13x18, di una tenda attrezzata a camera oscura. Come compito operativo le squadre dovevano operare la visualizzazione nelle zone alpine di fortificazioni e opere campali. Ulteriori squadre fotografiche furono assegnate «ai parchi di assedio del Genio, composte da due militari fotografi con macchine 13x18 e 18x24 e materiali di sviluppo e stampa»; mentre altro materiale e personale fu destinato alle Sezioni Aerostatiche, ai Dirigibili, ai Gruppi e alle Squadriglie.
Della Volpe ha precisato anche come presso «ogni Comando di Gruppo di Squadriglia venne costituito un laboratorio fotografico campale con personale (un capo operaio borghese e tre militari di truppa fotografi) e materiali forniti dalla Squadra fotografica del Comando Supremo, diventata Sezione, allo scopo di avere il più rapidamente possibile le fotografie eseguite durante le ricognizioni aeree. Le squadriglie furono dotate dalla Sezione di Udine di macchine fotografiche ripetizione e a mano. La sorveglianza tecnica sul funzionamento dei lavoratori fu affidata al capitano Antilli e al capo tecnico Moretti.» Successivamente, nel corso del 1917, furono apportate alcune modifiche che portò l’organico alla seguente distribuzione:
«1ª squadra fotografica da campagna – 3ª Armata;
 2ª squadra fotografica da campagna – Zona Gorizia;
 3ª squadra fotografica da montagna – 2ª Armata;
 4ª squadra fotografica da montagna – 1ª Armata;
 5ª squadra fotografica da montagna – Albania;
 6ª squadra fotografica da montagna – 4ª Armata;
 7ª squadra fotografica da campagna – Macedonia;
          8ª squadra fotografica da campagna – 6ª Armata (5).»
Una nuova ristrutturazione avvenne nel 1918, che ripartì il servizio in tale maniera:
«La Sezione fotografica del Comando Supremo di Udine prese la denominazione di Direzione del Servizio Fotografico, perché fossero chiare ed inequivocabili le sue funzioni direttive; fu composta da tre ufficiali, 20 fra sottoufficiali, capi operai, militari fotografi e personale vario, ed aveva a disposizione un’autovettura ed una bicicletta. L’appellativo di squadra fotografica fu dato ai nuclei che operavano presso unità minori, mentre squadre già esistenti e assegnate alle armate e alle grandi unità autonome cambiarono la denominazione in quella di sezione.
Fu unificata la composizione delle nuove sezioni fotografiche da campagna e da montagna (1 ufficiale comandante, 12 fra sottoufficiali, capi operai, militari fotografi, dotati di un’autovettura ed una bicicletta) e delle squadre (1 sottoufficiale, 1 graduato fotografo, 2 soldati aiutanti fotografi).
Fu anche definita la composizione del Magazzino Avanzato di Udine (2 ufficiali, 16 fra sottoufficiale e militari con qualifiche varie, dotati di un autocarro e di una bicicletta), mentre i laboratori dei Gruppi e delle Squadriglie, al termine delle ostilità, risultarono essere ben trentasette.
Il servizio, in complesso risultò così ripartito:
- Direzione del Servizio Fotografico con Magazzino avanzato dipendente dal Comando Superiore di Aeronautica del Comando Supremo;
- Servizio Fotografico Terrestre, costituito dalle sezioni e dalle squadre fotografiche, con dipendenza tecnica dalla Direzione del Servizio e dipendenza di impiego dalle Grandi Unità;
- Servizio Fotografico Aereo costituito dai laboratori fotografici di aviazione (dei gruppi e delle squadriglie) con dipendenza tecnica e di impiego dalla Direzione del Servizio.
I rifornimenti di tutti i materiali (macchine fotografiche, accessori, materiale di sviluppo e stampa) avvenivano tramite il Magazzino Avanzato.»
Finita la guerra circa seicento fotografi militari avevano così prestato la loro opera effettuando 150.000 negativi di riprese effettuate utilizzando 291 camere di vario tipo.
Per quanto concerne la censura sulla produzione fotografica, essa era demandata all’Ufficio Stampa e Propaganda del Comando Supremo, presso il quale era stato costituito l’apposito Ufficio Censura militare.
L’Ufficio Stampa era stato istituito nel gennaio del 1916, ed aveva come propulsori «il tenente Ugo Ojetti e il colonnello Eugenio Barbarich, che dal maggio 1916 al gennaio 1918 fu uno degli artefici dello sviluppo della propaganda (6).»
I compiti principali dell’Ufficio Stampa erano i rapporti con la stampa, la divulgazione delle fotografie, e la censura sia sulle corrispondenze sia sulle fotografie. Dopo la riorganizzazione del mese gi giugno, proposta dallo stesso Barbarich, l’istituto risultava così articolato:
«- Ufficio Stampa: provvedeva alle direttive, ai rapporti con la stampa italiana ed estera, alla censura degli articoli, alla rappresentanza in occasione di visite di missioni italiane, alleate e neutrali.
- Reparto Fotografico: espletava il servizio di segreteria, di propaganda a mezzo dell’immagini, di fotografia e di censura fotografica; si occupava delle conferenze a scopi propagandistici; inviava i propri fotografi al fronte (tra essi Aldo Molinari). Era diretto da Ojetti.
- Stabilimento Fotografico Revedin: si occupava dello sviluppo e della stampa delle fotografie di guerra; disponeva inoltre di propri fotografi.»
Nel 1917, l’Ufficio Stampa fu riordinato su un servizio stampa, un laboratorio fotografico ed una sezione cinematografica. Il laboratorio fotografico deteneva il compito di fornire «fotografie per la stampa e diapositive per illustrare conferenze, partecipava ad esposizioni e mostre in Italia e all’estero, produceva schizzi, cartine, disegni della guerra, cedeva negativi a ditte private per la riproduzione di cartoline di propaganda (7).»
Nel luglio del 1917, infine, il Comando supremo sulla fotografia in guerra aveva predisposto alcune norme per effettuare un preventivo controllo capillare della produzione fotografica. Le norme, fra l’altro, prevedevano il rispetto dei seguenti obblighi: «Delle fotografie dovranno essere presentati alla Censura tre esemplari, bene riusciti, con la precisa dicitura del titolo che sarà apposto per la pubblicazione, esibizione, esposizione, vendita o distribuzione. Due esemplari saranno trattenuti dalla Censura militare, il terzo (…) restituito.»
Sempre Della Volpe ha notato come fosse stato minimo il numero di fotografie censurate, e fra i soggetti che vennero censurati vi erano «obiettivi di interesse militare, pose estremamente raccapriccianti di caduti, immagini in cui comparivano militari in uniformi eccessivamente dimesse; soggetti,cioè, che potevano avere risvolti informativi e propagandistici deleteri (8).» Andando ad analizzare la produzione dei citati Servizi Fotografici (9), non è sbagliato sostenere come la fotografia, per certi versi, tendesse a negare l’esperienza traumatica che tale conflitto rappresentò per molti soldati. Durante il conflitto, la fotografia fu innanzitutto utilizzata per fini strettamente militari, essendo oramai stata riconosciuta un valido strumento operativo per la ricognizione del terreno e l’individuazione degli obiettivi strategici. 
Gli operatori dei Servizi Fotografici effettuarono spesso rilevamenti fotografici per documentare gli assetti dei territori che sarebbero divenuti obiettivi militari. Le sezioni fotografiche ufficiali cercavano, inoltre, di tralasciare i feriti gravi ed i cadaveri italiani, per concentrarsi sulle rovine, sulle macerie, perpetuando una tradizione iconografica che, dal Risorgimento ed attraverso la Prima Guerra Mondiale, si sarebbe perpetuata anche durante la Seconda Guerra Mondiale, per essere raccolta anche dallo stesso Istituto Luce. La fotografia ufficiale tendeva sempre a negare la drammaticità della morte in guerra. Tutt’al più, il soldato caduto, veniva immortalato in pose che tendevano a celare l’atrocità della morte sotto una patina di patriottismo che celebrava il sacrificio dell’uomo per il bene della nazione. I morti così, se non venivano occultati, erano fotografati in scene che simbolizzassero la morte nel legame del caduto con la propria patria natia, come nelle immagini che ritraevano il corpo del caduto steso placidamente in un prato e con il volto coperto dalla bandiera italiana. I Servizi Fotografici rappresentarono la guerra in trincea, esaltandone soprattutto il carattere di socialità ed il momento del cameratismo nelle truppe, riprendendo i soldati intenti a scrivere le lettere ai propri cari o a leggere la posta recapitata. Analizzando inoltre la produzione propagandistica di quegli anni di guerra, risalta spesso come la fotografia a la pittura si divisero i ruoli all’interno della rappresentazione iconografica del conflitto mondiale. Per certi versi, questa divisione di ruoli nella visualizzazione degli eventi, rappresentò il persistere di precedenti tradizioni iconografiche. 
Se la fotografia celebrò la serenità e la tranquillità della vita di guerra, alla pittura ed al disegno ancora una volta fu assegnato il ruolo della trasfigurazione eroica del conflitto in atto. Basta osservare alcune copertine delle riviste dell’epoca, con quei soldati disegnati nell’atto di lanciarsi dalle trincee contro il fuoco nemico, impavidi e pronti a sacrificarsi per la patria. La fotografia, a volte, rappresentava lo sfondo che doveva donare l’aderenza veritiera ai particolari eroici dipintivi sopra, ergendosi al ruolo della testimonianza che doveva rendere credibile la realtà manipolata dal disegno. Come quelle fotografie pubblicate sulla copertina dell’Illustrazione Italiana del luglio 1915, sulle quali i disegnatori aggiunsero a mano gli scoppi delle granate per rendere appunto più coraggiose le azioni dei soldati. Durante gli anni del conflitto, lo stato italiano, come d’altronde quasi tutti gli altri paesi belligeranti, preparò manifesti e cartoline per incitare gli animi della popolazione a resistere ai sacrifici necessari per la vittoria, e sensibilizzare così l’opinione pubblica al sostegno finanziario della guerra. Le forme iconografiche potevano variare dalla denigrazione dell’avversario ad un’esaltazione della drammaticità del momento. 
Se infatti la fotografia tendeva a negare le sofferenze del soldato, nei manifesti politici (10) e nelle cartoline invece spesso il dolore del lutto fu strumentalizzato per scuotere i sentimenti dei cittadini e spingerli a finanziare i prestiti emessi per sovvenzionare la produzione industriale, attraverso una propaganda che invitava a sottoscrivere i prestiti nazionali necessari a compensare gli sforzi economici che l’apparato bellico andava costituendo. Così era in quei manifesti e cartoline che raffiguravano due figli abbracciarsi, il viso e gli occhi tristi dal lutto, e sopra i loro corpi era disteso un foglio bianco con sopra scritto «Nostro padre ha dato la vita. Voi non negherete il denaro. Sottoscrivete!» Altre volte i manifesti raffiguravano scene dal fronte. Ecco allora soldati disegnati di spalle intenti a marciare nella neve, diretti verso le vette della montagna, a scrivere con le proprie orme nella neve l’ordine «sottoscrivete». Ecco un soldato intento a strozzare il nemico durante un scontro in trincea, e sotto il disegno vi era imponente la scritta «Fuori i barbari! Per la vittoria sottoscrivete al prestito.» Un soldato incidere sulla parete si una montagna l’ordine di sottoscrivere, od un altro appoggiato sopra un albero ed intento a sparare, e sotto scritta la frase «Ogni colpo è un passo verso la pace; se avete fretta di raggiungerla, sottoscrivete al Prestito Nazionale.» Od ancora un soldato ergersi statuario dalla trincea, dietro di lui fiamme e ombre di combattimento, una mano nel fucile e l’altra diretta ad indicare l’osservatore, a pronunciargli l’invito diretto: «Fate tutti il vostro dovere! Sottoscrivete il prestito. Credito Italiano (11).»
Ritornando alla rappresentazione fotografica della guerra, oltre alla stampa illustrata, le immagini della guerra furono affidate dal Comando Supremo (12) alla casa editrice dei fratelli Treves per pubblicare e diffondere in Italia l’opera La Guerra (13), composta di diciotto volumi, che uscì a dispense nelle librerie nazionali al costo di tre lire a fascicolo nella versione di lusso e al costo di 0,60 lire per i fascicoli in versione economica prodotti dal 1917. Ogni numero era dedicato ad una specifica battaglia del conflitto, ed oltre ad essere illustrato da carte militari e corredato da didascalie a più lingue, era composto anche dalle fotografie del Reparto Fotografico del Regio Esercito. Per quanto riguarda il contenuto delle fotografie, esse riprendevano le tematiche ufficiali della rappresentazione della guerra. Pertanto nulle erano le immagini dei soldati italiani caduti, semmai vi si potevano trovare alcune fotografie che intendevano attestare i soccorsi portati ai feriti. L’opera rientrava appieno nelle aspettative della propaganda, celebrando con le proprie immagini la preparazione e l’esemplare organizzazione dell’esercito italiano. Le fotografie riprendevano i soldati italiani durante le corvèe, gli alpini sulle cime innevate, le vedette, le postazioni dell’artiglieria, le costruzioni delle strade, i reticolati. Innumerevoli erano le fotografie panoramiche, con frequenti inquadrature di vallate e monti, che trasfiguravano lo scenario da guerra in paesaggi da cartolina. Ma oltre alle Sezioni Fotografiche dell’Esercito Italiano, durante il conflitto, molti soldati si cimentarono a impressionare sul rullino le proprie immagini di guerra, per poi recapitarle ai propri familiari, tramite la posta o riportandole di persona al proprio ritorno o durante qualche licenza. La produzione di macchine fotografiche economiche o di peso leggero,  e lo sviluppo della loro commercializzazione avvenuto negli anni precedenti, ampliò lo sguardo fotografico sulla guerra in atto. La guerra narrata dalla fotografia divenne, così, una storia in cui il confine fra pubblico e privato sfumava in continuazione, per essere inserito in tutto inglobante.
«Ogni ufficiale e marinaio dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico VEST POCKET KODAK. Dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo. Formato delle negative 4X6 cm. Dimensioni 25X60X120 mm. Peso 260 grammi», era scritto in una pubblicità della Kodak Società Anonima all’inizio della Prima Guerra Mondiale, per sponsorizzare presso i soldati l’acquisto della propria macchina fotografica. Il prezzo era indicato in «£ .40 per la Vest Pocket Kodak con borsa», ed in  «£. 69 con obb. Kodak Anastigmat».
Spesso erano soprattutto gli ufficiali a cimentarsi con più praticità con la fotografia, essendo stata la fotografia, fino ad allora, un apparecchio il cui costo non era accessibile a tutte le classi sociali. Nella rappresentazione fotografica dei soldati, alcune tematiche riprendevano il racconto visivo ufficiale, producendo immagini che si accostavano ai messaggi della propaganda come se essa fosse stata interamente interiorizzata dalle truppe. I momenti di tregua, trascorsi nel riposo o nello svago, erano le immagini che i soldati fotografi producevano con lo scopo di inviarli ai propri familiari e rassicurarli sul proprio stato fisico. Si preferiva spesso lasciarsi fotografare nella quiete della natura, ritratti in immagini di paesaggi che rendevano la guerra simile ad una gita domenicale. La morte e le privazioni sembravano lontane dal corpo del soldato, che incolume si lasciava ritrarre intento a scrivere la posta o a parlare con i commilitoni.
Ma i fotografi soldati, spesso, produssero un’immagine più reale della propria percezione del conflitto, raccontando e fissando sulla pellicola l’immagine dell’esperienza traumatica che per molti di loro la guerra assunse. Nonostante i divieti e la censura, infatti, la fotografia testimoniò le terribili condizioni igieniche in cui riversavano spesso i soldati nelle trincee. «Caccia grossa» era così il titolo scritto a mano su una fotografia che riprendeva i soldati italiani innalzare cumuli di topi a testimoniare lo stato in cui erano abbandonati i soldati. Od ancora, sempre in alcune immagini delle trincee, le divise dei soldati neanche si riuscivano a distinguere dal fango in cui erano immersi. Diversa era anche la rappresentazione della morte in guerra effettuata dagli stessi soldati. Molte erano le motivazioni che portavano i soldati a riprendere cruenti scene di morte, i caduti in trincea, le fucilazioni o le impiccagioni di massa. Alcuni soldati scattavano queste fotografie per poter serbare un ricordo, anche se macabro, del conflitto, da divulgare poi fra gli amici e mostrare come testimonianza visiva dei propri racconti di guerra. Ma non tutti i soldati mostravano al loro ritorno queste drammatiche immagini. Anch’essi a volte tendevano a celare ai propri familiari l’atrocità della guerra, per evitare che essi stessero troppo in pensiero per la loro sorte. Essi così tendevano ad avallare la versione ufficiale della propaganda, per un fine più prettamente personale che politico, ma che comunque esaltava la tranquillità della guerra ed il cameratismo fra le truppe. Le fotografie di morti, inoltre, raramente venivano pubblicate sui giornali, ed a volte non erano neanche sottoposte al vaglio della censura, assumendo appunto un uso ed un carattere prettamente personale. Simili immagini, tuttavia, anche se non erano mai state effettuate dai soldati per testimoniare e denunciare le atrocità della guerra, furono in ogni caso utilizzate per produrre alcuni dei più importati film antimilitaristi dell’epoca (14). E furono proprio queste fotografie ad essere utilizzate nel 1924 da Ernst Friedrich nel suo libro Guerra alla Guerra. Friedrich raccolse nel libro le immagini più crude e drammatiche della guerra,  corredandole con didascalie in italiano, francese, tedesco ed inglese. Friedrich  utilizzava le fotografie di morte non soltanto per denunciare l’orrore della guerra ma anche per attaccare l’ipocrisia della propaganda bellicista. A tal fine, nel libro vi era sempre una contrapposizione presente fra le immagini della propaganda e quelle della realtà, pubblicando sulla «pagina destra una scena edificante, una sfilata in pompa magna, la foto di un soldato sorridente, un’arma moderna e micidiale come il carro armato; sulla pagina di sinistra gli stessi soldati che sfilavano gloriosi morti nel fango, il milite sorridente trasformato in un troncone informe, l’equipaggio di un tank dilaniato (15). ». Od ancora sulla destra era pubblicata una fotografia di generali seduti a banchettare sorridenti ad un tavolino, mentre sulla sinistra appariva un soldato con il corpo rivolto e straziato sul ciglio di una trincea. Altre volte, per denunciare l’ipocrisia dei politici e dei giornalisti che idealizzavano il mito della bellezza della guerra, Friedrich accostava alle fotografie le frasi di propaganda dei governi in guerra. «L'imperatore Guglielmo II: "Vi guiderò verso tempi gloriosi"» era riportato sotto una  fotografia che ritraeva scheletri di volti abbandonati nel terreno. Sotto altre immagini drammatiche era stato apposto invece il rapporto dell'esercito che concludeva «niente di nuovo sul fronte.»
Le pagine del libro erano riempite interamente da immagini di fosse comuni, corpi dilaniati nelle trincee, stravolti dallo scoppio delle mine o dall’uso dei gas, cadaveri nudi in stato di putrefazione, città distrutte dalla guerra, per poi riportare un’innumerevole serie di fotografie che testimoniavano le impiccagioni pubbliche e le fucilazioni. Il libro terminava con un serie di fotografie che intendeva rappresentare il vero volto della guerra, oltre il velo d’ipocrisia tessuto dai governi. Si trattava di ritratti fotografici di soldati sfigurati. Terribili fotografie composte da primi piani di visi che testimoniavano le orribili mutilazioni subite dai soldati. Con queste  crude immagini Friedrich voleva sensibilizzare gli animi della popolazione per creare un forte sentimento pacifista. Con tale intento, egli si impegnò anche ad aprire un Museo Antiguerra a Berlino. Ma nel marzo del 1933 il museo fu interamente distrutto (16), ed al suo posto fu costruita una sede del partito nazista. Altri sentimenti orami agitavano l’Europa del dopoguerra, sentimenti che avrebbero portato ad una nuova guerra mondiale che avrebbe sconvolto ancora di più le vite delle persone.

Bibliografia Minima

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AA.VV., Decades of the 20th  Century (1910-1970), Konemann 1998.
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Bertelli Carlo, Bollati Giulio, L’immagine fotografica 1845-1945, in Storia d’Italia. Annali vol.II, Einaudi, Torino, 1979.
Charmichael Jane, First World War Photographers, Routledge, London, 1989.
D’Autilia Gabriele, Criscenti Luca, De Luna Giovanni, Autobiografia di una nazione. Storia fotografica della società italiana, Editori Riuniti, Roma, 1999.
De Luna Giovanni, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino, 2006.
Della Volpe Nicola, Fotografie militari, Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico, Roma, 1980.
Della Volpe Nicola, Esercito e propaganda nella Grande Guerra, Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico, FUSA, Roma, 1989.
Fabi Lucio, La prima guerra mondiale. 1915-1918, Editori Riuniti, Roma, 1999.
Friedrich Ernst, Guerra alla Guerra. 1914-1918: scene di orrore quotidiano (1924), Mondadori, Milano, 2004.
Fox Robert, Photographies de guerre, Hazan, 2002.
Gibelli Antonio, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
Gilardi Ando, Storia sociale della fotografia, Feltrinelli, Milano, 1976.
Goglia Luigi, Momenti della guerra 1915-18 nelle fotografie di Carlo Balelli, Editalia, Roma, 1995.
Kozlovic Andrea, Storia fotografica della Grande Guerra, Valdagno, Novale, 1990.
Isnenghi Mario, Rochat Giorgio, La Grande Guerra. 1914-1918, La Nuova Italia, Milano, 2000.
Isnenghi Mario, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1818-1945, Il Mulino, Bologna, 2005.
Mosse George L., Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 1998.
Ortoleva Peppino, Ottaviano Chiara (a cura di), Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in un contesto bellico, Liguori, Napoli, 1994.
Schwarz Angelo, La guerra rappresentata, in Rivista di storia e critica della fotografia, Torino, 1981.
Sheffield G.D., Storia fotografica della prima guerra mondiale, Vallardi, Milano, 1992.
Ventrone Angelo, Il nemico interno. Immagini e simboli della lotta politica nell’Italia del ‘900, Donzelli Editore, Roma, 2005.
Viaggio S., Tomassini L., Beurier J., Soldati fotografi. Fotografie della Grande Guerra sulle pagine di «Le Miroir», Museo storico italiano della guerra, Trento, 2005.
Zannier Italo, Storia della fotografia italiana, Laterza, Roma-Bari, 1986.

Note:

 (1) Vedi Gibelli A., Luci, voci, fili sul fronte: la Grande Guerra e il mutamento della percezione, in Ortoleva P, Ottaviano C. (a cura di), Guerra e mass media, pag. 49. Vedi anche Gibelli A., L’officina della guerra.
(2) Per un esempio di volumi editi con le immagini della Section Photographique de l’Armée vedi La France d'aujourd'hui e Le sang n'est pas de l'eauPer uno studio relativo alla pubblicazione delle fotografie della guerra sulle riviste francesi vedi Viaggio S., Tomassini L., Beurier J., Soldati fotografi. Fotografie della Grande Guerra sulle pagine di «Le Miroir».
(3) La costituzione di servizi fotografici all'interno dell’esercito italiano era già avvenuta durante la guerra italo-turca del 1911-12. La documentazione del conflitto, infatti, era stata all'epoca affidata ad una Sezione Fotografica militare, che disponeva di squadre operanti a Tripoli, Bengasi e Zuara. Le sezioni fotografiche, oltre a produrre istantanee di carattere operativo e tattico, utilizzarono anche dirigibili, aerostati ed aeroplani Blériot e Nieuport per effettuare rilevamenti di terreni e fornire dati precisi ed immagini dei dispositivi degli avversari. Vedi Del Boca A., Labanca N., L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, pag. 9.
(4)  Vedi Della Volpe N., Fotografie Militari, pag. 125-126
(5) Vedi Della Volpe N., Fotografie Militari, pag. 125-126  
(6)  Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 16.
(7) Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 24.
(8) Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 266.
(9)  Nel 1933 fu edita la seconda edizione di un catalogo per la vendita delle fotografie di guerra prodotte dai Servizio Fotografico. I trenta capitoli in cui erano raggruppati i soggetti erano: artiglieria, armi varie, aviazione, baraccamenti, cimiteri e tombe di guerra, città paesi e fabbricati, chiese, colombi viaggiatori e cani da guerra, dirigibili e aerostati, monumenti, opere d’arte e reliquie, esercitazione ed esperimenti, forti, lavori di difesa, di mina e di galleria, località, paesi distrutti e danni, panorami, personaggi e gruppi, ponti, prigionieri, marina, riviste e cerimonie, servizio fotografico, servizio sanitario, servizi vari del genio, strade e ferrovie, sussistenza e rifornimenti vari, teleferiche, trincee camminamenti e ricoveri, visioni varie.
(10) Per una galleria di alcune cartoline e manifesti politici emessi negli anni del conflitto vedi i seguenti indirizzi web:
(11)  Furono diverse le tematiche utilizzate durante il conflitto nei manifesti per la sottoscrizione. Per uno studio approfondito vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra; Veltrone A., Il nemico interno.
(12)  Oltre alla collaborazione con i Treves, il Comando Supremo realizzò con la Sestetti & Luminelli i Panorami della Guerra, con la Alfieri & Lacroix Sulle orme di San Marco, e fornì il materiale per il volume La Guerra italiana nel 1916.
(13)  Per alcuni esempi di fotografie pubblicate su tali fascicoli vedi:
(14)  Mosse ha raccontato come, in molte nazioni, tra cui la Francia, le fotografie scattate da alcuni soldati furono in seguito utilizzate, proprio per il loro realismo, come sfondo per realizzare alcune scene dei film antibellicisti degli ultimi anni Venti e degli anni Trenta. Vedi Mosse G.L., Le guerre mondiali, pag. 166.
(15)  Vedi Della Luna G., Il corpo del nemico ucciso, pag. 73.
(16)  Friedrich fu arrestato fino alla fine dell’anno. Dopodichè emigrò con la famiglia in Belgio. Il museo fu successivamente riaperto dal nipote nel 1982. Ultimamente, la sua opera Guerra alla Guerra è stata in Italia ripubblicata dalla Mondadori.




Originariamente pubblicato sul Dossier Fotografia e Storia della Sissco (Società italiana per lo studio della storia contemporanea).