La forca
era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati
dei quattordici capotribù erano ostentati alla popolazione, che li osservava
rimanendo addossata contro le mura dei palazzi ai margini della piazza.
«La vista
di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte con il collo spezzato e
reclinato, gli abiti cenciosi, doveva servire», come ha scritto Del Boca, «per
dare un esempio salutare ai “ribelli”» (1).
Era il
dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse
erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale,
dagli interessi economici dei gruppi industriali e finanziari alle missioni
civilizzatrici benedette dai vescovi, dai desideri bellicisti dei nazionalisti
al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda»
necessaria per ristabilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere
Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva probabilmente contribuito anche
la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propaganda,
d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa
ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale
a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con certezza ogni collusione fra turchi ed
arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe
potuto unire le popolazioni locali, Galli assicurava che i soldati italiani
sarebbero stati sicuramente accolti come liberatori.
Ai primi
dell’ottobre del 1911, così, circa trentacinquemila uomini, al comando del
generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche ed iniziarono a prendere
possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici
dell’esercito italiano furono istituiti nel 1896 (2), la guerra italo-turca
rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della
Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili
applicazioni della fotografia all’arte militare».
La Sezione
Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente
dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un laboratorio
fotografico. Successivamente, furono create altre due squadre che si
stabilirono a Bengasi e a Zuara (3).
I
fotografi produssero istantanee di carattere operativo e tattico,
intervenendo anche «dall’alto di dirigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e
Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati precisi alle
batterie di cannoni ed immagini dei dispositivi militari degli avversari
arabo-turchi, contribuendo così, per la prima volta nella storia delle imprese
militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre
fotografie, invece, documentavano gli armamenti a disposizione delle truppe
italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito
e del conflitto.
Accanto
alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia, si aggirarono anche i
corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca
Comerio, che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati,
«documentare l’eroismo e la superiorità militare e morale delle truppe
italiane» (4).
La
fotografia diveniva uno strumento di enfatizzazione della guerra come
esperienza eroica e virile. I soggetti maggiormente rappresentati e diffusi
erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama
esotici. La tipologia della fotografia ricordo, in molte occasioni, era ancora
la rappresentazione fotografica più diffusa. Molte fotografie furono
riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari
corrispondenti. Nel 1913, i Fratelli Treves pubblicarono l’Album Portfolio
della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto
essenzialmente dalle fotografie pubblicate sulle pagine della rivista
L’Illustrazione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra
svolta. Se simili pubblicazioni rimanevano ristrette ad un uso riservato alle
classi più abbienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco alfabetizzati,
furono pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline per
raccontare l’esperienza in Libia.
Ma
l’immagine della guerra serena, dell’incolumità e della potenza delle truppe italiane,
fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà. La mattina del 23 ottobre,
infatti, le truppe italiane furono attaccate tra forte Messri e Sciara Sciat.
A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi
abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui parteciparono
civili e guerriglieri, uomini e donne, caratterizzata da una spietata
violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggimento
furono accerchiate e in poche ore massacrate. Del Boca ha quantificato in 21
ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimenti (5). In
alcune fotografie, si vedevano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul
terreno (6). I corpi dei bersaglieri morti, infatti, giacevano «insepolti
ovunque; molti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A
molti» avevano «cucito gli occhi con lo spago; molti» erano «stati messi
sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltissimi» avevano
«avuto le parti genitali tagliate» (7). Le immagini del massacro iniziarono a
circolare anche in patria, spesso attraverso le cartoline spedite dagli
stessi soldati. Per cercare di limitare la diffusione di simili immagini, nel
dicembre del 1911, Giolitti inviò il seguente telegramma al prefetto di
Milano:
«Consta
che i corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità
commesse dai Turchi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili
fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola
adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone comprendere
assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale
crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione» (8).
Se le
immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di
converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio
iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando
in colonia. In alcune cartoline il plotone di esecuzione si era messo in posa
per il fotografo, disponendo ai propri piedi i corpi dei civili fucilati.
Emblematica era la didascalia che così recitava:
«La
fucilazione degli arabi, che a tradimento assalirono alle spalle gli eroici
bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat».
In altre
cartoline, invece, era ripreso il momento della preparazione delle esecuzioni,
ritraendo i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e
sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono
i colpi a tradimento» contro il reggimento «in attesa di essere fucilati». La
didascalia e la cartolina, come ha notato Mignemi, confermavano più o meno
inconsapevolmente «il carattere di esecuzione sommaria» di simili
fucilazioni, essendo le vittime state «prescelte perché trovate in un
edificio», senza che fosse «stato istruito nei loro confronti un procedimento
per accertare le responsabilità reali».
Lo
sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento
di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie commesse
dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive deportazioni dei
sopravvissuti alle repressioni.
Furono oltre
quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscriminate avvenute nei tre giorni
che seguirono lo scontro di Sciara Sciat. I soldati italiani incendiarono i
villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono le donne e
massacrarono gli anziani. Questo odio veniva alimentato dalla continua
propaganda, che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e
propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti
episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di
accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti
avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione».
La
violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate
le tesi di chi aveva previsto una facile accoglienza dei soldati italiani da
parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato
come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ricreare
un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana, al fine di
mantenere salda l’adesione al conflitto. La censura italiana iniziò a cercare
di celare gli eventi di repressione che imperversarono in quei giorni, ma
confrontando diverse fonti, si quantificarono in oltre quattromila le esecuzioni
sommarie ed indiscriminate perpetrate contro la popolazione civile nei tre
giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi
massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica
politica e di denuncia dei crimini di guerra. Le fotografie delle repressioni
italiane erano documenti con cui l’opposizione poteva testimoniare le proprie
argomentazioni politiche e la propria protesta.
Il
giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari,
un opuscolo di denuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotografate
(9), rappresentando un atto di accusa contro la politica coloniale di Giolitti
ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volume, si
susseguivano le immagini più atroci della repressione perpetrata contro la
popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rappresaglie,
le fucilazioni di massa, i processi sommari, gli incendi e le razzie commesse
nei villaggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante
rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di
quell’ingiusta e spietata guerra» (10).
La
fotografia, infatti, testimoniò la forca eretta nella Piazza del Pane a
Tripoli per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al
socialista Scalarini di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici
che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al
pubblico italiano le forche a più posti che componevano macabri alberi di
Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a
diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava e educava il
traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi e «le
forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestirpabili».
L’esposizione
in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore
ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’efficienza della
propria giustizia. La forca diventava allo stesso tempo strumento di
repressione e di intimidazione. Anche dopo la firma del trattato di pace,
l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il primario strumento per cercare
di dominare l’imperversante ribellione nei territori libici. Le immagini delle
forche accesero presto anche il dibattito parlamentare sulla politica
coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta parlamentare
a denunciare le atrocità commesse dall’esercito italiano in nome della
presunta civilizzazione. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre
1913, aveva pubblicato una serie di fotografie che documentavano le
impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta del
Parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui denunciava e
condannava la violenza della politica coloniale del governo.
«Ho
sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà
all’Italia una grande missione di civiltà, e che abbiamo come primo fine
quello di renderci amiche quelle popolazioni, col rispettarne la religione, la
proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma
io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […]
Ogni soldato
che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una
sportula di cinque franchi. […]
Io mi
domando se siamo in Italia, e se il governo sappia che un tal Cesare Beccaria è
nato in Italia» (11).
Ma
nonostante le denunce e le critiche dell’opposizione, le esecuzioni capitali
continuarono ad essere emesse, spesso senza che le vittime fossero state
giudicate da un giusto processo, condannate colpevoli da sentenze a volte
prive di reali motivazioni.
E così
continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono
le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impiccagioni.
Interessante, in merito, è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia
(12), un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931.
Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più
efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò una serie di fotografie a
diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di repressione contro la
guerriglia.
La
repressione in Libia, durante il fascismo, divenne di anno in anno sempre più
sistematica. Al fine di reprimere la resistenza che ancora imperversava nella
Senussia, e per cercare anche di interrompere il legame che intercorreva fra
le popolazioni del Gebel cirenaico e la guerriglia, Badoglio e Graziani
fecero deportare circa 80.000 civili per essere poi confinati nei campi di
concentramento della Sirtica (13).
Il
controllo del regime fascista sulla fotografia, tuttavia, divenne più capillare
e sistematico. Difficile trovare nelle fotografie ufficiali scene di repressione.
Ma la fotografia privata, invece, spesso documentò l’efferatezza delle
impiccagioni, testimoniando anche il rituale preparato per ostentare l’impiccagione
di Omar el Muktar (14), nel campo di concentramento di Soluch, davanti ai
notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager.
Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri,
infatti, i condannati reclusi in diversi campi di detenzione furono condotti
sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condanna.
«L’impiccagione
del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti a ventimila
deportati», concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive
ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e
«l’efficienza degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero
«state scatenate in Etiopia» (15).
E fu
proprio durante la guerra d’Etiopia che la fotografia fu assunta a divenire un
importante strumento dell’imperialismo fascista.
Note:
(1) Vedi Del
Boca A., Italiani, brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza
Editore, Vicenza, 2005, p. 112.
(2) Il 1 aprile
1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III
Reggimento Genio a Roma.
(3) Vedi Rosati
A., Immagini delle campagne coloniali. La guerra Italo-Turca 1911-1912,
Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000.
(4) Vedi Causa
C., La guerra italo-turca e la conquista della Tripolitania e della
Cirenaica, Salani, Firenze, 1913.
(5) Vedi Del
Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(6) Vedi Palma
S., L’Italia coloniale, op. cit., pp. 76-79.
(7) Vedi
Piccioli F., Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano,
1974, p. 26.
(8) Archivio di
Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefettura», I vers., c. 567, telegramma
cifr. N. 31498 del 5 dicembre 1911.
(9) Vedi Valera
P., Le giornate di Sciarasciat fotografate, Stabilimento tipografico
Borsani, Milano, 1911. Le immagini delle fucilazione e delle rappresaglie
furono testimoniate anche da altri fotografi. A tal proposito vedi AA.VV.,…Ausonia
intanto ha una colonia. Immagini del colonialismo italiano, Artegrafica
Bolzonella, Padova, 1985; Angrisani A., Immagini della guerra di Libia,
Lacaita, Manduria, 1997.
(10) Vedi Del
Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(11) Camera dei
Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del
18 dicembre 1913, pp. 555-557.
(12) Vedi
Labanca N., (a cura di), Un nodo. Immagini e documenti sulla repressione
coloniale italiana in Libia, Pietro Lacaita, Roma Bari, Manduria 2002, pp.
5-114.
(13) Del Boca ha
ricordato come nel biennio 1930-31, dai 40.000 ai 60.000 abitanti del Gebel
morirono «nel corso delle azioni repressive e per il tifo petecchiale contratto
nei campi di concentramento». Sempre Del Boca ha ricordato come lo stesso
Badoglio riconobbe l'estremo rigore della misura, ma anche come ne giustificò
la necessità, sostenendo come essa dovesse essere perseguita «sino alla fine
anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Vedi Del Boca
A., Gli italiani in Africa Orientale II, La conquista dell'Impero, Oscar
Mondadori, Milano, 2001, p. 15; Del Boca A., Italiani, brava gente? op.
cit., pp. 165-182.
(14) Fu il
fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un
capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del
1931, riprendendo il leader della resistenza pirenaica accerchiato dai soldati
del 7° squadroni savari guidato dal capitano Bertè.
(15) Vedi Del
Boca A., La conquista dell'Impero, op. cit., p. 16.
Tratto da La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento dell'imperialismo fascista
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