«Il XX secolo, l’epoca della politica di massa e della
cultura di massa ha preferito affidarsi più all’immagine che alla parola
stampata. Questa tendenza a servirsi dell’immagine è sempre esistita in mezzo
ad una popolazione in gran parte analfabeta, ma oggi, in seguito al
perfezionamento della fotografia, del cinema e del rituale politico, essa è
diventata una considerevole fo rza politica», ha
scritto Mosse (1). Attraverso le proprie produzioni fotografiche, le nazioni, con le
connesse società e rispettive forme di cultura, si sono confessate, rivelate,
consegnate alla storia. Se è vero, come ha sostenuto Sontag (2), che fotografare
significhi appropriarsi della cosa che si intende fotografare, stabilendo così
con il mondo una relazione particolare, che possa alla fine dare una sensazione
di conoscenza e perciò di potere, allora le fotografie ci riconsegnano
senz’altro l’interpretazione ed il tentativo di appropriazione che l’uomo, nel
corso dei secoli, ha messo in atto nei confronti della realtà, mentre vorticosa
lo coinvolgeva. La fotografia, a tal punto, è sempre una testimonianza storica. Ma tale
testimonianza, spesso, non va intesa nel senso stretto di una descrizione
oggettiva di una realtà, quanto semmai in un significato che comprenda
l’attestazione di un avvenimento e l’intenzionalità di divulgare una particolare
verità all’interno della società. La fotografia, infatti, non è «il trasparente
resoconto di un evento», ma è sempre «un’immagine che qualcuno ha scelto;
fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere» (3).
Le
fotografie sono frammenti di realtà selezionati dal fotografo, che «sceglie il
momento e l’oggetto» della rappresentazione; spesso sono condizionati dalla
stessa macchina fotografica, che «detta i limiti dell’inquadratura». Il
prodotto stesso di «questa sinergia non può essere una riproduzione oggettiva
della realtà» (4).
Pertanto,
quando analizziamo una fotografia, non dobbiamo limitarci a raccontare soltanto
ciò che è stato rappresentato, ma dobbiamo, nel possibile, svelare anche ciò
che è stato volontariamente tralasciato, cercando inoltre di indagare le
motivazioni per cui simili scelte di rappresentazione ed esclusione siano state
effettuate, interessandoci, come sosteneva Bloch, di «quel che si lascia
intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita» (5).
Soltanto
analizzando la fotografia, riconoscendo in essa ciò che è stato volontariamente
escluso, si può costruire un quadro completo della realtà in cui simile
rappresentazione è stata completata.
Un’analisi
che acquista una notevole importanza nella ricerca dell’intenzionalità che ha
generato le fotografie attestanti scene di atrocità durante le
guerre. L’atrocità può essere stata fotografata da un professionista per
denunciare o testimoniare un episodio storico; può essere stata fotografata da
un soldato che ha partecipato all’eccidio, per poi tenerla come un macabro
ricordo; può essere stata commissionata dalla propaganda di un governo per
orientare l’opinione pubblica; può essere stata fotografata da un civile come
lascito alla memoria. Una volta compresa la motivazione dello scatto, è
altrettanto importante analizzare l’uso che la società o la politica compie poi
delle immagini prodotte sui terreni dei conflitti. La morte, nel momento che
esista una conflittualità politica in essere, non si erge da sola come condanna
della guerra in se, ma viene spesso utilizzata per effettuare proseliti alla propria
fazione (6). Un’ immagine di
guerra, così, può essere utilizzata per finalità fra loro del tutto
contrapposte, e che ergono a seconda da quale visuale lo spettatore voglia
riflettere sull’immagine, o da quale visuale il fotografo voglia stimolare la
percezione dell’osservatore. Altre volte, questa dicotomia di messaggi presenti
nella fotografia, può derivare da fattori esterni all’intimo rapporto che
s’instaura fra l’osservatore e la fotografia, e che vengono appunto posti per
influenzare tale comunicazione.
La
committenza, il taglio, la didascalia, le modalità di diffusione o di
pubblicazione, sono tutti fattori che possono stravolgere ed influenzare la
lettura ed il significato di un’eventuale immagine, ed incidere sulla sua
fruizione nelle persone. La fotografia, spesso, è nulla più che una vuota
immagine se non la compariamo appunto con la sua produzione e con la sua funzione
storica, sia sociale sia politica. Se l’immagine ci rivela la personalità e la
cultura del fotografo che ha realizzato una simile opera, è senz’altro la
didascalia a raccontarci, così, l’intenzionalità politica che ha determinato la
divulgazione della stessa immagine all’interno della società. Nel momento in
cui ogni immagine può destare sentimenti diversi negli osservatori, la
didascalia rappresenta senz’altro il tentativo di indirizzare tali sentimenti
spontanei in determinati significati politici, spesso stabiliti in precedenza
dal divulgatore dell’immagine.
In
tale modo, il testo dirigerebbe «il lettore tra i significati dell’immagine»,
facendone «evitare alcuni e recepire altri» (7), influenzando così il
pensiero critico dell’osservatore.
Un
tentativo che assume un’estrema e sensibile importanza, soprattutto nel momento
in cui una nazione è coinvolta nel sacrificio e nel dramma di una guerra. Le
fotografie che riescono a passare il visto delle censure, vengono spesso
pubblicate con didascalie che filtrano il senso reale dell’immagine, per
propagandare il messaggio della parte in conflitto.
Le
fotografie di morte, così, sono state diffuse per illustrare a volte tesi già
precostituite, per giustificare il proprio intento di guerra e contemporaneamente
legittimare le proprie azioni belliche, per demonizzare il nemico e fomentare
l’odio verso di lui, per ostentare la propria potenza repressiva e l’ordine
costituito, per negare oppure ostentare la violenza della guerra, a seconda se
i morti appartenessero al proprio esercito od al nemico. La fotografia è stata
utilizzata per celebrare l’eroismo della guerra o per
urlare le sue atrocità conto l’umanità.
«Le
fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la
pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza,
continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose
terribili» (8).
L’affermazione
di Sontag sulle reazioni suscitate nelle persone dalle fotografie delle
atrocità, in tal senso, illustra l’effimera potenza della fotografia, capace di
veicolare i sentimenti delle persone a sostegno o contro determinati conflitti,
ma ci deve indurre anche a riflettere sulla tremenda impotenza delle immagini,
che si rivela pienamente quando le atrocità della guerra vengono accolte dalle
persone come un evento inevitabile. Le immagini di morte possono provocare
nello spettatore un sentimento di abitudine, di rigetto, come se «la
reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l’annulla» (9).
La
quotidiana presenza di immagini violente nella società odierna fa insorgere il
rischio che la capacità critica dell’osservatore si perda nella rassegnazione
di accettare la guerra, come una inevitabile presenza nell’esistenza umana. Ma
sarebbe un grave errore assimilare le fotografie della morte in guerra ad un
genere iconografico, astraendo dalle condizioni politiche e storiche in cui le
specifiche immagini sono state prodotte e diffuse. Per una corretta analisi
delle immagini stesse, non si deve incorrere nell’errore di effettuare soltanto
uno studio stilistico delle fotografie, soffermandosi principalmente sulla
composizione della scena ripresa, ma diviene necessario
entrare nel dettaglio della fotografia, scavare nella sua natura, concentrarsi nei
particolari, cercare di comprendere quale sia stata l’intenzionalità che ha
maturato la scelta di produrre una simile immagine, e soprattutto appurare se
l’immagine abbia poi risposto fedelmente alla stessa intenzionalità, o se
invece, come spesso avviene, la fotografia non abbia lasciato trasparire
dettagli ed elementi che ci portino ad una più profonda conoscenza dell’evento
rappresentato.
Le
immagini di un conflitto, come ha notato De Luna, sono «momenti di verità»,
rappresentano «tessere di un mosaico che lo storico deve completare con tutte
le informazioni e le conoscenze che gli derivano dal complesso delle sue
ricerche e delle sue fonti» (10).
A
tal punto, nella miriade di immagini di violenza che la storia ha prodotto, il
«contesto rimane quindi indispensabile per decifrare le singole specificità che
la storia lascia emergere nella nebulosa di quella che viene chiamata barbarie» (11). Perché è proprio il
contesto a rappresentare un «elemento cruciale», non soltanto «per lo
scatenamento della violenza», ma anche «per prepararla e renderla accettabile e
giustificabile» (12).
È
lo stesso clima sociale a far sì che emergano determinati atti di violenza.
Sono le «concezioni politiche, le identità ideologiche, le capacità
tecnologiche che indirizzano a questa o a quella forma di violenza, che diventa
a sua volta indicativa e caratteristica del regime che le mette in pratica» (13). È il contesto, come ha
scritto Flores, che fornisce al potere le condizioni adeguate «per
legittimare l’uso della violenza, per mobilitare le masse a eseguirla o
appoggiarla, per discolparsi in anticipo attraverso propaganda e menzogne che
il contesto sembra rendere accettabili» (14).
Ma
spesso, il significato di una fotografia, il suo senso, può derivare, oltre che
dal mutare del contesto storico, anche a causa dell’avanzare del tempo, che può
far rileggere le immagini prodotte negli anni precedenti in un’ottica
totalmente opposta a quella iniziale.
Molte
fotografie delle guerre del Novecento possono ancora oggi portare il loro
drammatico messaggio, soltanto se vi è una nazione capace di comprenderle.
D’altronde, le fotografie, se a volte non sussiste un ricordo che le possa
animare, divengono vuoti trascrittori, come ha raccontato Sartre, sintetizzando
l’assenza di una qualsiasi comunicazione fra la fotografia ed una persona, a
causa di un passato che non forniva più ricordi, nella geniale frase «questi
afrodisiaci non hanno più alcun effetto sulla mia memoria» (15).
L’assenza
di una memoria storica può causare la banalizzazione delle immagini attestanti
le atrocità della guerra. La quotidiana fruizione di immagini violente,
inoltre, tende ad alimentare la triste assuefazione delle popolazioni alla
violenza. La circolazione di fotografie attestanti le violenze di guerra si amplia,
il senso di denuncia e critica si assottiglia, la memoria svanisce nell’oblio.
A tal punto, le fotografie non sono più testimonianze che indignano le
coscienze, ma diventano semplici immagini che, accolte per un attimo dalle
persone, poi scivolano via, per essere sostituite dalle
immagini successive, in un mosaico di continui orrori, smettendo di «essere una
testimonianza per diventare parte della scenografia che ci circonda. Ognuno può
scegliere comodamente il frammento di orrore con cui decorare di commozione la
propria vita» (16), ognuno può scegliere la propria icona per denunciare la guerra o
giustificarla, oppure semplicemente può decidere di rimanere indifferente. Nel
momento in cui la guerra viene accettata nella sua ineluttabilità, le atrocità
vengono assorbite dalle persone, per essere metabolizzate in fotografie, che
nulla possono per interrompere la tragedia in atto.
Note
1. Mosse G.L., L’uomo e le masse
nelle ideologie nazionaliste, p. 13.
2.
Vedi Sontag S., Sulla fotografia, p. 4.
3.
Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 40.
4.
Vedi Schaber I., Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria
nella Guerra civile spagnola, pp. 123-124.
5.
«Oggi perciò, persino nelle testimonianze più decisamente volontarie, ciò che
il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della
nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente quel che si lascia
intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita». Vedi Bloch M., Apologia della
storia, p. 69.
6.
«Per i militanti, l’identità è tutto. E ogni fotografia attende d’essere
spiegata o falsificata da una didascalia. Durante i combattimenti tra serbi e
croati all’inizio delle recenti guerre nei Balcani, le stesse fotografie di
bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle
conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la
didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli
volte». Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 9.
7.
Proprio discorrendo relativamente al testo che accompagna la fotografia
stampata, Barthes ha rivelato come esso costituisca «un messaggio parassita,
destinato a connotare l’immagine, cioè a “insufflarle” uno o più significati
secondi». E se spesso il testo apposto accanto alla fotografia «non fa che amplificare
un insieme di connotazioni già incluse nella fotografia» altre volte, il testo
diviene di primaria importanza nello studio dell’uso della fotografia, in
quanto esso «produce (inventa) un significato interamente nuovo e che viene in
qualche modo proiettato retroattivamente nell’immagine, al punto da sembrare
denotato». Considerando che ogni immagine è polisemica, Barthes sosteneva che
essa «implica, al di sotto dei suoi significanti» una «catena fluttuante» di
significati, che «il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare». A
questo punto, «in ogni società si sviluppano tecniche diverse destinate a fissare la catena fluttuante dei
significati, in modo da combattere il terrore dei segni incerti: il messaggio
linguistico è una di queste tecniche». Vedi Barthes R.,L’ovvio e l’ottuso, pp. 15-17 e pp. 28-30.
8.
Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 11.
9.
Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p.26.
10.
Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. XXVI.
11.
Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. 63.
12.
Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
13.
Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 55.
14.
Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
15.
Vedi Sartre J.P., La nausea.
16.
Vedi Pérez-Reverte A., Il pittore di battaglie, p. 17.