Vasilij
Grossman conosceva la guerra. L'aveva vista da vicino, quando - negli anni che
andarono dall'agosto del 1941 fino al 1945 - era stato corrispondente dal
fronte del giornale Stella
Rossa.
A
seguito dell'Armata Sovietica, aveva raccontato il conflitto nei taccuini neri
che portava sempre con sé e su cui annotava le sue impressioni.
Finita
la guerra iniziò a scrivere il romanzo per cui impiegò quasi dieci
anni.
E
quando conclusa la stesura - nell'ottobre del 1960 - inviò il
romanzo ad una rivista, non immaginava forse cosa sarebbe successo dopo.
Il
caporedattore della rivista avvisò i funzionari politici per sottoporre
il romanzo alla loro
visione. Nel febbraio del 1961, due agenti del KGB visitarono l'abitazione
dello scrittore e sequestrarono il manoscritto, le carte carbone, le minute, i
nastri della macchina da scrivere. Grossman protestò -
inviando anche una lettera al segretario del Partito Nikita
Krusciov -, ma dopo diversi
mesi di silenzi gli
fu comunicato che il suo libro non sarebbe stato pubblicato né restituito.
Ma,
nonostante ciò, una
copia del libro era stata salvata dallo scrittore. Grossman l'aveva
consegnata all'amico Limpkin per un avere un suo giudizio. E fu proprio Limpkin
a riuscire a far arrivare in occidente il romanzo di Grossman fino a Losanna, dove
venne definitivamente pubblicato nel 1980 da una casa editrice svizzera. Ormai
Grossman era morto da diversi anni, da quel giorno del settembre 1964 in cui la
sua vita si spense a seguito di una malattia da cui non aveva avuto né cure né
aiuto per sconfiggerla, e con l'animo rammaricato di
non sapere se il suo romanzo sarebbe mai stato pubblicato.
Bisognò
aspettare ancora qualche
altro anno, per la precisione il 1990, per vedere pubblicata la copia
integrale del romanzo di Grossman - che lui stesso aveva dato all'amico
Viaceslav Ivanovic Loboda - basata sulle correzioni autografe che lo stesso
autore aveva apposto. Ed è dal testo integrale in russo del romanzo che
la casa editrice Adelphi dal
2008 ha curato la traduzione dell'edizione da essa pubblicata.
Ma
cosa narrava questo romanzo per condannare Grossman - fino a quel momento considerato
un apprezzato scrittore e reporter di guerra, e dopo di allora
giudicato un autore antisovietico - ad un simile destino?
Ambientato
fra il luglio del 1942 ed il febbraio del 1943, e diviso in tre parti, il
romanzo narra l'assedio e la battaglia di Stalingrado, le storie
delle persone coinvolte nel dramma di quei mesi, la ferocia dei lager nazisti, l'orrore
della guerra
che entra nella quotidianità della vita, la sopravvivenza sotto
le macerie
e la distruzione, i
rapporti familiari, i
destini che s’incrociano, i figli che partono per la guerra e l'attesa delle
madri e la
dolorosa scoperta del sapere che i figli non torneranno più vivi, il
dolore della perdita e della morte, la voglia di non inchinarsi al potere, ai
suoi compromessi, ai sospetti ed alle accuse di tradimenti, di
rimanere fedeli ai propri
ideali, il
desiderio di vivere nonostante le tenebre dei tempi, nonostante l'odio ed i
regimi. Sono scene che costringono a posare il libro ed interrompere la
lettura tanto si rimane colpiti dentro da quello che lo scrittore scrive o
dalle parole che lui usa per descrivere la tragedia in atto. E
dalle pagine emerge anche la denuncia di due totalitarismi che, per quanto si
professassero nemici ed in guerra l'un con l'altro, erano identici nel
principio e nell'essenza dello Stato partito, come Grossman lascia trasparire
da un dialogo in cui Liss - un comandante responsabile del lager nazista -
disse al prigioniero Mostovksoj: «Quando io e lei ci guardiamo in faccia,
non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È
questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in
noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? Il mondo non è forse pura
volontà anche per voi? [...] Non c’è nessun abisso tra di noi! Se lo sono
inventato. Siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno “Stato partito”.»
Vita
e destino è considerato un
romanzo il
cui respiro epico è stato spesso paragonato a Guerra e Pace di
Tolstoj, ma con una scrittura secca, perfetta e completa nel suo essere concisa e
spesso avvolta
da un'infinita poesia. Un romanzo sull'individuo ed il proprio destino, sul
totalitarismo e sulla guerra. Un romanzo la
cui lettura può forse risultare difficile,
ma rimane
senz'altro indispensabile. Un romanzo che - nel narrare gli
orrori della guerra e la ferocia della dittatura - lascia tuttavia trapelare
dalle sue pagine uno struggente inno alla vita. E vengono in mente le
parole con cui Anna Semenova - la madre ebrea di Strum - decide di terminare la
lettera che - di fronte all'evenienza della sua morte per mano dei nazisti -
scrive al figlio: «Viktor,
mio caro... È l'ultima riga dell'ultima lettera che ti scrive tua madre.
Vivi, vivi per sempre...»