Gibelli
ha giustamente notato come la
Grande Guerra appaia sempre più «il grande spartiacque del
nostro tempo, specialmente per quanto concerne la trasformazione delle
strutture mentali, le forme della percezione e della comunicazione (1).» Anche
se spesso la rappresentazione iconografica ufficiale del conflitto mantenne dei
tratti similari alle produzioni belliche precedenti, è giusto tuttavia notare
come la guerra abbia amplificato e socializzato «la rivoluzione delle
comunicazioni che si è compiuta fra Otto e Novecento. La guerra serializza e
estende a milioni di uomini il nuovo modo di vedere, sentire, comunicare.» Tutte
le grandi nazioni che parteciparono al conflitto crearono appositi servizi
fotografici all’interno del proprio esercito. Se la Francia costituì la Section Photographique
de l’Armée (2), ed in
Gran Bretagna fu istituito il British Official Photo, anche all’interno
dell’esercito italiano (3) furono organizzati i Servizi Fotografici che avrebbero dovuto effettuare la
rappresentazione del conflitto in atto. Nel maggio 1915, in base alla
ricostruzione effettuata da Della Volpe (4) esistevano all’interno dell’esercito italiano le seguenti squadre fotografiche:
«-1ª Squadra
fotografica da campagna, comandata dal capitano Antilli, con sede ad Udine e a
disposizione del Comando Supremo;
- 2ª Squadra
fotografica da campagna, comandata dal sottotenente Gastaldi, con sede a
Tricesimo e a disposizione della 2ª Armata;
- 3ª Squadra
fotografica da campagna, comandata dal capitano Lancellotti, con sede a
Cervignano e a disposizione della 3ª Armata.»
Ogni squadra aveva a
sua disposizione un’autovettura, ed era composta dall’ufficiale comandante, da
tre fotografi, da un conduttore e da un meccanico. Come attrezzatura
fotografica, le squadre erano dotate di macchine formato 13x18 e 18x24, oltre
ad alcune camere a mano di formato minore. Il loro compito era di effettuare le
ricognizioni panoramiche del terreno, oltre alla documentazione delle
operazioni militari per fini prettamente storici. Oltre alle suddette squadre,
furono mobilitate «4 squadre telefotografiche da montagna di cui due, la 1ª e
la 2ª, erano rispettivamente a Verona (a disposizione della 1ª Armata) e a
Tolmezzo (a disposizione del Comando Zona Carnia).» Le squadre erano someggiate
ed erano composte da un ufficiale, tre fotografi, cinque soldati alpini e
cinque muli. Come attrezzatura tecnica le squadre disponevano di un apparato
telefotografico 24x30, di una camera a mano 13x18, di una tenda attrezzata a
camera oscura. Come compito operativo le squadre dovevano operare la
visualizzazione nelle zone alpine di fortificazioni e opere campali. Ulteriori
squadre fotografiche furono assegnate «ai parchi di assedio del Genio, composte
da due militari fotografi con macchine 13x18 e 18x24 e materiali di sviluppo e
stampa»; mentre altro materiale e personale fu destinato alle Sezioni
Aerostatiche, ai Dirigibili, ai Gruppi e alle Squadriglie.
Della Volpe ha
precisato anche come presso «ogni Comando di Gruppo di Squadriglia venne
costituito un laboratorio fotografico campale con personale (un capo operaio
borghese e tre militari di truppa fotografi) e materiali forniti dalla Squadra
fotografica del Comando Supremo, diventata Sezione, allo scopo di avere il più
rapidamente possibile le fotografie eseguite durante le ricognizioni aeree. Le
squadriglie furono dotate dalla Sezione di Udine di macchine fotografiche
ripetizione e a mano. La sorveglianza tecnica sul funzionamento dei lavoratori
fu affidata al capitano Antilli e al capo tecnico Moretti.» Successivamente,
nel corso del 1917, furono apportate alcune modifiche che portò l’organico alla
seguente distribuzione:
«1ª squadra fotografica
da campagna – 3ª Armata;
2ª squadra fotografica
da campagna – Zona Gorizia;
3ª squadra fotografica
da montagna – 2ª Armata;
4ª squadra fotografica
da montagna – 1ª Armata;
5ª squadra fotografica
da montagna – Albania;
6ª squadra fotografica
da montagna – 4ª Armata;
7ª squadra fotografica
da campagna – Macedonia;
8ª squadra fotografica da
campagna – 6ª Armata (5).»
Una nuova
ristrutturazione avvenne nel 1918, che ripartì il servizio in tale maniera:
«La Sezione fotografica del
Comando Supremo di Udine prese la denominazione di Direzione del Servizio
Fotografico, perché fossero chiare ed inequivocabili le sue funzioni direttive;
fu composta da tre ufficiali, 20 fra sottoufficiali, capi operai, militari
fotografi e personale vario, ed aveva a disposizione un’autovettura ed una
bicicletta. L’appellativo di squadra fotografica fu dato ai nuclei che
operavano presso unità minori, mentre squadre già esistenti e assegnate alle
armate e alle grandi unità autonome cambiarono la denominazione in quella di
sezione.
Fu unificata la
composizione delle nuove sezioni fotografiche da campagna e da montagna (1
ufficiale comandante, 12 fra sottoufficiali, capi operai, militari fotografi,
dotati di un’autovettura ed una bicicletta) e delle squadre (1 sottoufficiale,
1 graduato fotografo, 2 soldati aiutanti fotografi).
Fu anche definita la
composizione del Magazzino Avanzato di Udine (2 ufficiali, 16 fra
sottoufficiale e militari con qualifiche varie, dotati di un autocarro e di una
bicicletta), mentre i laboratori dei Gruppi e delle Squadriglie, al termine
delle ostilità, risultarono essere ben trentasette.
Il servizio, in
complesso risultò così ripartito:
- Direzione del
Servizio Fotografico con Magazzino avanzato dipendente dal Comando Superiore di
Aeronautica del Comando Supremo;
- Servizio Fotografico
Terrestre, costituito dalle sezioni e dalle squadre fotografiche, con
dipendenza tecnica dalla Direzione del Servizio e dipendenza di impiego dalle
Grandi Unità;
- Servizio Fotografico
Aereo costituito dai laboratori fotografici di aviazione (dei gruppi e delle
squadriglie) con dipendenza tecnica e di impiego dalla Direzione del Servizio.
I rifornimenti di tutti
i materiali (macchine fotografiche, accessori, materiale di sviluppo e stampa)
avvenivano tramite il Magazzino Avanzato.»
Finita la guerra circa
seicento fotografi militari avevano così prestato la loro opera effettuando 150.000
negativi di riprese effettuate utilizzando 291 camere di vario tipo.
Per quanto concerne la
censura sulla produzione fotografica, essa era demandata all’Ufficio Stampa e
Propaganda del Comando Supremo, presso il quale era stato costituito l’apposito
Ufficio Censura militare.
L’Ufficio Stampa era stato
istituito nel gennaio del 1916, ed aveva come propulsori «il tenente Ugo Ojetti
e il colonnello Eugenio Barbarich, che dal maggio 1916 al gennaio 1918 fu uno
degli artefici dello sviluppo della propaganda (6).»
I compiti principali
dell’Ufficio Stampa erano i rapporti con la stampa, la divulgazione delle
fotografie, e la censura sia sulle corrispondenze sia sulle fotografie. Dopo la
riorganizzazione del mese gi giugno, proposta dallo stesso Barbarich,
l’istituto risultava così articolato:
«- Ufficio Stampa: provvedeva alle direttive, ai rapporti con la
stampa italiana ed estera, alla censura degli articoli, alla rappresentanza in
occasione di visite di missioni italiane, alleate e neutrali.
- Reparto Fotografico: espletava il servizio di segreteria, di
propaganda a mezzo dell’immagini, di fotografia e di censura fotografica; si
occupava delle conferenze a scopi propagandistici; inviava i propri fotografi
al fronte (tra essi Aldo Molinari). Era diretto da Ojetti.
- Stabilimento Fotografico Revedin: si occupava dello sviluppo e
della stampa delle fotografie di guerra; disponeva inoltre di propri
fotografi.»
Nel 1917, l’Ufficio Stampa
fu riordinato su un servizio stampa, un laboratorio fotografico ed una sezione
cinematografica. Il laboratorio fotografico deteneva il compito di fornire
«fotografie per la stampa e diapositive per illustrare conferenze, partecipava
ad esposizioni e mostre in Italia e all’estero, produceva schizzi, cartine,
disegni della guerra, cedeva negativi a ditte private per la riproduzione di
cartoline di propaganda (7).»
Nel luglio del 1917,
infine, il Comando supremo sulla fotografia in guerra aveva predisposto alcune
norme per effettuare un preventivo controllo capillare della produzione
fotografica. Le norme, fra l’altro, prevedevano il rispetto dei seguenti
obblighi: «Delle fotografie dovranno essere presentati alla Censura tre
esemplari, bene riusciti, con la precisa dicitura del titolo che sarà apposto
per la pubblicazione, esibizione, esposizione, vendita o distribuzione. Due
esemplari saranno trattenuti dalla Censura militare, il terzo (…) restituito.»
Sempre Della Volpe ha
notato come fosse stato minimo il numero di fotografie censurate, e fra i
soggetti che vennero censurati vi erano «obiettivi di interesse militare, pose
estremamente raccapriccianti di caduti, immagini in cui comparivano militari in
uniformi eccessivamente dimesse; soggetti,cioè, che potevano avere risvolti
informativi e propagandistici deleteri (8).» Andando
ad analizzare la produzione dei citati Servizi Fotografici (9), non è
sbagliato sostenere come la fotografia, per certi versi, tendesse a negare
l’esperienza traumatica che tale conflitto rappresentò per molti soldati. Durante
il conflitto, la fotografia fu innanzitutto utilizzata per fini strettamente
militari, essendo oramai stata riconosciuta un valido strumento operativo per
la ricognizione del terreno e l’individuazione degli obiettivi strategici.
Gli
operatori dei Servizi Fotografici effettuarono spesso rilevamenti fotografici
per documentare gli assetti dei territori che sarebbero divenuti obiettivi
militari. Le sezioni fotografiche ufficiali cercavano, inoltre, di tralasciare
i feriti gravi ed i cadaveri italiani, per concentrarsi sulle rovine, sulle
macerie, perpetuando una tradizione iconografica che, dal Risorgimento ed
attraverso la Prima
Guerra Mondiale, si sarebbe perpetuata anche durante la Seconda Guerra
Mondiale, per essere raccolta anche dallo stesso Istituto Luce. La fotografia
ufficiale tendeva sempre a negare la drammaticità della morte in guerra.
Tutt’al più, il soldato caduto, veniva immortalato in pose che tendevano a
celare l’atrocità della morte sotto una patina di patriottismo che celebrava il
sacrificio dell’uomo per il bene della nazione. I morti così, se non venivano
occultati, erano fotografati in scene che simbolizzassero la morte nel legame
del caduto con la propria patria natia, come nelle immagini che ritraevano il
corpo del caduto steso placidamente in un prato e con il volto coperto dalla
bandiera italiana. I Servizi Fotografici rappresentarono la guerra in trincea,
esaltandone soprattutto il carattere di socialità ed il momento del cameratismo
nelle truppe, riprendendo i soldati intenti a scrivere le lettere ai propri
cari o a leggere la posta recapitata. Analizzando inoltre la produzione
propagandistica di quegli anni di guerra, risalta spesso come la fotografia a
la pittura si divisero i ruoli all’interno della rappresentazione iconografica
del conflitto mondiale. Per certi versi, questa divisione di ruoli nella
visualizzazione degli eventi, rappresentò il persistere di precedenti
tradizioni iconografiche.
Se la fotografia celebrò la serenità e la
tranquillità della vita di guerra, alla pittura ed al disegno ancora una volta fu
assegnato il ruolo della trasfigurazione eroica del conflitto in atto. Basta
osservare alcune copertine delle riviste dell’epoca, con quei soldati disegnati
nell’atto di lanciarsi dalle trincee contro il fuoco nemico, impavidi e pronti
a sacrificarsi per la patria. La fotografia, a volte, rappresentava lo sfondo
che doveva donare l’aderenza veritiera ai particolari eroici dipintivi sopra,
ergendosi al ruolo della testimonianza che doveva rendere credibile la realtà
manipolata dal disegno. Come quelle fotografie pubblicate sulla copertina dell’Illustrazione Italiana del luglio 1915,
sulle quali i disegnatori aggiunsero a mano gli scoppi delle granate per
rendere appunto più coraggiose le azioni dei soldati. Durante gli anni del
conflitto, lo stato italiano, come d’altronde quasi tutti gli altri paesi
belligeranti, preparò manifesti e cartoline per incitare gli animi della
popolazione a resistere ai sacrifici necessari per la vittoria, e
sensibilizzare così l’opinione pubblica al sostegno finanziario della guerra.
Le forme iconografiche potevano variare dalla denigrazione dell’avversario ad
un’esaltazione della drammaticità del momento.
Se infatti la fotografia tendeva
a negare le sofferenze del soldato, nei manifesti politici (10) e nelle
cartoline invece spesso il dolore del lutto fu strumentalizzato per scuotere i
sentimenti dei cittadini e spingerli a finanziare i prestiti emessi per
sovvenzionare la produzione industriale, attraverso una propaganda che invitava
a sottoscrivere i prestiti nazionali necessari a compensare gli sforzi
economici che l’apparato bellico andava costituendo. Così era in quei manifesti
e cartoline che raffiguravano due figli abbracciarsi, il viso e gli occhi
tristi dal lutto, e sopra i loro corpi era disteso un foglio bianco con sopra
scritto «Nostro padre ha dato la vita. Voi non negherete il denaro.
Sottoscrivete!» Altre volte i manifesti raffiguravano scene dal fronte. Ecco
allora soldati disegnati di spalle intenti a marciare nella neve, diretti verso
le vette della montagna, a scrivere con le proprie orme nella neve l’ordine
«sottoscrivete». Ecco un soldato intento a strozzare il nemico durante un
scontro in trincea, e sotto il disegno vi era imponente la scritta «Fuori i
barbari! Per la vittoria sottoscrivete al prestito.» Un soldato incidere sulla
parete si una montagna l’ordine di sottoscrivere, od un altro appoggiato sopra
un albero ed intento a sparare, e sotto scritta la frase «Ogni colpo è un passo
verso la pace; se avete fretta di raggiungerla, sottoscrivete al Prestito
Nazionale.» Od ancora un soldato ergersi statuario dalla trincea, dietro di lui
fiamme e ombre di combattimento, una mano nel fucile e l’altra diretta ad
indicare l’osservatore, a pronunciargli l’invito diretto: «Fate tutti il vostro
dovere! Sottoscrivete il prestito. Credito Italiano (11).»
Ritornando
alla rappresentazione fotografica della guerra, oltre alla stampa illustrata,
le immagini della guerra furono affidate dal Comando Supremo (12) alla casa
editrice dei fratelli Treves per pubblicare e diffondere in Italia l’opera La
Guerra (13), composta di diciotto
volumi, che uscì a dispense nelle librerie nazionali al costo di tre lire a
fascicolo nella versione di lusso e al costo di 0,60 lire per i fascicoli in
versione economica prodotti dal 1917. Ogni numero era dedicato ad una specifica
battaglia del conflitto, ed oltre ad essere illustrato da carte militari e
corredato da didascalie a più lingue, era composto anche dalle fotografie del
Reparto Fotografico del Regio Esercito. Per quanto riguarda il contenuto delle
fotografie, esse riprendevano le tematiche ufficiali della rappresentazione
della guerra. Pertanto nulle erano le immagini dei soldati italiani caduti,
semmai vi si potevano trovare alcune fotografie che intendevano attestare i
soccorsi portati ai feriti. L’opera rientrava appieno nelle aspettative della
propaganda, celebrando con le proprie immagini la preparazione e l’esemplare
organizzazione dell’esercito italiano. Le fotografie riprendevano i soldati
italiani durante le corvèe, gli alpini sulle cime innevate, le vedette, le
postazioni dell’artiglieria, le costruzioni delle strade, i reticolati. Innumerevoli
erano le fotografie panoramiche, con frequenti inquadrature di vallate e monti,
che trasfiguravano lo scenario da guerra in paesaggi da cartolina. Ma oltre
alle Sezioni Fotografiche dell’Esercito Italiano, durante il conflitto, molti
soldati si cimentarono a impressionare sul rullino le proprie immagini di
guerra, per poi recapitarle ai propri familiari, tramite la posta o
riportandole di persona al proprio ritorno o durante qualche licenza. La
produzione di macchine fotografiche economiche o di peso leggero, e lo sviluppo della loro commercializzazione
avvenuto negli anni precedenti, ampliò lo sguardo fotografico sulla guerra in
atto. La guerra narrata dalla fotografia divenne, così, una storia in cui il
confine fra pubblico e privato sfumava in continuazione, per essere inserito in
tutto inglobante.
«Ogni ufficiale e marinaio dovrebbe
provvedersi dell’apparecchio fotografico VEST POCKET KODAK. Dato il suo piccolo
formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa
senz’alcun disturbo. Formato delle negative 4X6 cm. Dimensioni 25X60X120 mm.
Peso 260 grammi», era scritto in una pubblicità della Kodak Società
Anonima all’inizio della Prima Guerra Mondiale, per sponsorizzare presso i
soldati l’acquisto della propria macchina fotografica. Il prezzo era indicato
in «£ .40 per la Vest
Pocket Kodak con borsa»,
ed in «£. 69 con obb. Kodak Anastigmat».
Spesso erano soprattutto
gli ufficiali a cimentarsi con più praticità con la fotografia, essendo stata
la fotografia, fino ad allora, un apparecchio il cui costo non era accessibile
a tutte le classi sociali. Nella rappresentazione fotografica dei soldati,
alcune tematiche riprendevano il racconto visivo ufficiale, producendo immagini
che si accostavano ai messaggi della propaganda come se essa fosse stata
interamente interiorizzata dalle truppe. I momenti di tregua, trascorsi nel
riposo o nello svago, erano le immagini che i soldati fotografi producevano con
lo scopo di inviarli ai propri familiari e rassicurarli sul proprio stato
fisico. Si preferiva spesso lasciarsi fotografare nella quiete della natura,
ritratti in immagini di paesaggi che rendevano la guerra simile ad una gita
domenicale. La morte e le privazioni sembravano lontane dal corpo del soldato,
che incolume si lasciava ritrarre intento a scrivere la posta o a parlare con i
commilitoni.
Ma i fotografi soldati, spesso,
produssero un’immagine più reale della propria percezione del conflitto,
raccontando e fissando sulla pellicola l’immagine dell’esperienza traumatica
che per molti di loro la guerra assunse. Nonostante i divieti e la censura, infatti,
la fotografia testimoniò le terribili condizioni igieniche in cui riversavano spesso
i soldati nelle trincee. «Caccia grossa» era così il titolo scritto a mano su
una fotografia che riprendeva i soldati italiani innalzare cumuli di topi a
testimoniare lo stato in cui erano abbandonati i soldati. Od ancora, sempre in
alcune immagini delle trincee, le divise dei soldati neanche si riuscivano a
distinguere dal fango in cui erano immersi. Diversa era anche la rappresentazione
della morte in guerra effettuata dagli stessi soldati. Molte erano le
motivazioni che portavano i soldati a riprendere cruenti scene di morte, i
caduti in trincea, le fucilazioni o le impiccagioni di massa. Alcuni soldati
scattavano queste fotografie per poter serbare un ricordo, anche se macabro,
del conflitto, da divulgare poi fra gli amici e mostrare come testimonianza
visiva dei propri racconti di guerra. Ma non tutti i soldati mostravano al loro
ritorno queste drammatiche immagini. Anch’essi a volte tendevano a celare ai
propri familiari l’atrocità della guerra, per evitare che essi stessero troppo
in pensiero per la loro sorte. Essi così tendevano ad avallare la versione
ufficiale della propaganda, per un fine più prettamente personale che politico,
ma che comunque esaltava la tranquillità della guerra ed il cameratismo fra le
truppe. Le fotografie di morti, inoltre, raramente venivano pubblicate sui
giornali, ed a volte non erano neanche sottoposte al vaglio della censura,
assumendo appunto un uso ed un carattere prettamente personale. Simili
immagini, tuttavia, anche se non erano mai state effettuate dai soldati per
testimoniare e denunciare le atrocità della guerra, furono in ogni caso
utilizzate per produrre alcuni dei più importati film antimilitaristi
dell’epoca (14). E furono
proprio queste fotografie ad essere utilizzate nel 1924 da Ernst Friedrich nel suo
libro Guerra alla Guerra. Friedrich
raccolse nel libro le immagini più crude e drammatiche della guerra, corredandole con didascalie in italiano,
francese, tedesco ed inglese. Friedrich utilizzava le fotografie di morte non soltanto
per denunciare l’orrore della guerra ma anche per attaccare l’ipocrisia della
propaganda bellicista. A tal fine, nel libro vi era sempre una contrapposizione
presente fra le immagini della propaganda e quelle della realtà, pubblicando
sulla «pagina destra una scena edificante, una sfilata in pompa magna, la foto
di un soldato sorridente, un’arma moderna e micidiale come il carro armato;
sulla pagina di sinistra gli stessi soldati che sfilavano gloriosi morti nel
fango, il milite sorridente trasformato in un troncone informe, l’equipaggio di
un tank dilaniato (15). ». Od ancora sulla
destra era pubblicata una fotografia di generali seduti a banchettare sorridenti
ad un tavolino, mentre sulla sinistra appariva un soldato con il corpo rivolto
e straziato sul ciglio di una trincea. Altre volte, per denunciare l’ipocrisia
dei politici e dei giornalisti che idealizzavano il mito della bellezza della
guerra, Friedrich accostava alle fotografie le frasi di propaganda dei governi
in guerra. «L'imperatore Guglielmo II: "Vi guiderò verso tempi
gloriosi"» era riportato sotto una
fotografia che ritraeva scheletri di volti abbandonati nel terreno.
Sotto altre immagini drammatiche era stato apposto invece il rapporto dell'esercito
che concludeva «niente di nuovo sul fronte.»
Le pagine del libro erano
riempite interamente da immagini di fosse comuni, corpi dilaniati nelle
trincee, stravolti dallo scoppio delle mine o dall’uso dei gas, cadaveri nudi
in stato di putrefazione, città distrutte dalla guerra, per poi riportare
un’innumerevole serie di fotografie che testimoniavano le impiccagioni
pubbliche e le fucilazioni. Il libro terminava con un serie di fotografie che
intendeva rappresentare il vero volto della guerra, oltre il velo d’ipocrisia
tessuto dai governi. Si trattava di ritratti fotografici di soldati sfigurati.
Terribili fotografie composte da primi piani di visi che testimoniavano le
orribili mutilazioni subite dai soldati. Con queste crude immagini Friedrich voleva sensibilizzare
gli animi della popolazione per creare un forte sentimento pacifista. Con tale
intento, egli si impegnò anche ad aprire un Museo Antiguerra a Berlino. Ma nel
marzo del 1933 il museo fu interamente distrutto (16), ed al suo
posto fu costruita una sede del partito nazista. Altri sentimenti orami
agitavano l’Europa del dopoguerra, sentimenti che avrebbero portato ad una nuova
guerra mondiale che avrebbe sconvolto ancora di più le vite delle persone.
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Note:
(1) Vedi Gibelli A., Luci, voci, fili sul fronte: la Grande Guerra e il mutamento della percezione, in Ortoleva P, Ottaviano C. (a cura di), Guerra e mass media, pag. 49. Vedi anche Gibelli A., L’officina della guerra.
(2) Per un esempio di volumi editi con le immagini della Section Photographique de l’Armée vedi La France d'aujourd'hui e Le sang n'est pas de l'eau. Per uno studio relativo alla pubblicazione delle fotografie della guerra sulle riviste francesi vedi Viaggio S., Tomassini L., Beurier J., Soldati fotografi. Fotografie della Grande Guerra sulle pagine di «Le Miroir».
(3) La costituzione di servizi fotografici all'interno dell’esercito italiano era già avvenuta durante la guerra italo-turca del 1911-12. La documentazione del conflitto, infatti, era stata all'epoca affidata ad una Sezione Fotografica militare, che disponeva di squadre operanti a Tripoli, Bengasi e Zuara. Le sezioni fotografiche, oltre a produrre istantanee di carattere operativo e tattico, utilizzarono anche dirigibili, aerostati ed aeroplani Blériot e Nieuport per effettuare rilevamenti di terreni e fornire dati precisi ed immagini dei dispositivi degli avversari. Vedi Del Boca A., Labanca N., L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, pag. 9.
(4) Vedi Della Volpe N., Fotografie Militari, pag. 125-126
(5) Vedi Della Volpe N., Fotografie Militari, pag. 125-126
(6) Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 16.
(7) Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 24.
(8) Vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra, pag. 266.
(9) Nel 1933 fu edita la seconda edizione di un catalogo per la vendita delle fotografie di guerra prodotte dai Servizio Fotografico. I trenta capitoli in cui erano raggruppati i soggetti erano: artiglieria, armi varie, aviazione, baraccamenti, cimiteri e tombe di guerra, città paesi e fabbricati, chiese, colombi viaggiatori e cani da guerra, dirigibili e aerostati, monumenti, opere d’arte e reliquie, esercitazione ed esperimenti, forti, lavori di difesa, di mina e di galleria, località, paesi distrutti e danni, panorami, personaggi e gruppi, ponti, prigionieri, marina, riviste e cerimonie, servizio fotografico, servizio sanitario, servizi vari del genio, strade e ferrovie, sussistenza e rifornimenti vari, teleferiche, trincee camminamenti e ricoveri, visioni varie.
(10) Per una galleria di alcune cartoline e manifesti politici emessi negli anni del conflitto vedi i seguenti indirizzi web:
(11) Furono diverse le tematiche utilizzate durante il conflitto nei manifesti per la sottoscrizione. Per uno studio approfondito vedi Della Volpe N., Esercito e propaganda nella Grande Guerra; Veltrone A., Il nemico interno.
(12) Oltre alla collaborazione con i Treves, il Comando Supremo realizzò con la Sestetti & Luminelli i Panorami della Guerra, con la Alfieri & Lacroix Sulle orme di San Marco, e fornì il materiale per il volume La Guerra italiana nel 1916.
(13) Per alcuni esempi di fotografie pubblicate su tali fascicoli vedi:
(14) Mosse ha raccontato come, in molte nazioni, tra cui la Francia, le fotografie scattate da alcuni soldati furono in seguito utilizzate, proprio per il loro realismo, come sfondo per realizzare alcune scene dei film antibellicisti degli ultimi anni Venti e degli anni Trenta. Vedi Mosse G.L., Le guerre mondiali, pag. 166.
(15) Vedi Della Luna G., Il corpo del nemico ucciso, pag. 73.
(16) Friedrich fu arrestato fino alla fine dell’anno. Dopodichè emigrò con la famiglia in Belgio. Il museo fu successivamente riaperto dal nipote nel 1982. Ultimamente, la sua opera Guerra alla Guerra è stata in Italia ripubblicata dalla Mondadori.