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lunedì 3 settembre 2018

La memoria delle atrocità

«Il XX secolo, l’epoca della politica di massa e della cultura di massa ha preferito affidarsi più all’immagine che alla parola stampata. Questa tendenza a servirsi dell’immagine è sempre esistita in mezzo ad una popolazione in gran parte analfabeta, ma oggi, in seguito al perfezionamento della fotografia, del cinema e del rituale politico, essa è diventata una considerevole fo rza politica», ha scritto Mosse (1). Attraverso le proprie produzioni fotografiche, le nazioni, con le connesse società e rispettive forme di cultura, si sono confessate, rivelate, consegnate alla storia. Se è vero, come ha sostenuto Sontag (2), che fotografare significhi appropriarsi della cosa che si intende fotografare, stabilendo così con il mondo una relazione particolare, che possa alla fine dare una sensazione di conoscenza e perciò di potere, allora le fotografie ci riconsegnano senz’altro l’interpretazione ed il tentativo di appropriazione che l’uomo, nel corso dei secoli, ha messo in atto nei confronti della realtà, mentre vorticosa lo coinvolgeva. La fotografia, a tal punto, è sempre una testimonianza storica. Ma tale testimonianza, spesso, non va intesa nel senso stretto di una descrizione oggettiva di una realtà, quanto semmai in un significato che comprenda l’attestazione di un avvenimento e l’intenzionalità di divulgare una particolare verità all’interno della società. La fotografia, infatti, non è «il trasparente resoconto di un evento», ma è sempre «un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere» (3).
Le fotografie sono frammenti di realtà selezionati dal fotografo, che «sceglie il momento e l’oggetto» della rappresentazione; spesso sono condizionati dalla stessa macchina fotografica, che «detta i limiti dell’inquadratura». Il prodotto stesso di «questa sinergia non può essere una riproduzione oggettiva della realtà» (4).
Pertanto, quando analizziamo una fotografia, non dobbiamo limitarci a raccontare soltanto ciò che è stato rappresentato, ma dobbiamo, nel possibile, svelare anche ciò che è stato volontariamente tralasciato, cercando inoltre di indagare le motivazioni per cui simili scelte di rappresentazione ed esclusione siano state effettuate, interessandoci, come sosteneva Bloch, di «quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita» (5).
Soltanto analizzando la fotografia, riconoscendo in essa ciò che è stato volontariamente escluso, si può costruire un quadro completo della realtà in cui simile rappresentazione è stata completata.
Un’analisi che acquista una notevole importanza nella ricerca dell’intenzionalità che ha generato le fotografie attestanti scene di atrocità durante le guerre. L’atrocità può essere stata fotografata da un professionista per denunciare o testimoniare un episodio storico; può essere stata fotografata da un soldato che ha partecipato all’eccidio, per poi tenerla come un macabro ricordo; può essere stata commissionata dalla propaganda di un governo per orientare l’opinione pubblica; può essere stata fotografata da un civile come lascito alla memoria. Una volta compresa la motivazione dello scatto, è altrettanto importante analizzare l’uso che la società o la politica compie poi delle immagini prodotte sui terreni dei conflitti. La morte, nel momento che esista una conflittualità politica in essere, non si erge da sola come condanna della guerra in se, ma viene spesso utilizzata per effettuare proseliti alla propria fazione (6). Un’ immagine di guerra, così, può essere utilizzata per finalità fra loro del tutto contrapposte, e che ergono a seconda da quale visuale lo spettatore voglia riflettere sull’immagine, o da quale visuale il fotografo voglia stimolare la percezione dell’osservatore. Altre volte, questa dicotomia di messaggi presenti nella fotografia, può derivare da fattori esterni all’intimo rapporto che s’instaura fra l’osservatore e la fotografia, e che vengono appunto posti per influenzare tale comunicazione.
La committenza, il taglio, la didascalia, le modalità di diffusione o di pubblicazione, sono tutti fattori che possono stravolgere ed influenzare la lettura ed il significato di un’eventuale immagine, ed incidere sulla sua fruizione nelle persone. La fotografia, spesso, è nulla più che una vuota immagine se non la compariamo appunto con la sua produzione e con la sua funzione storica, sia sociale sia politica. Se l’immagine ci rivela la personalità e la cultura del fotografo che ha realizzato una simile opera, è senz’altro la didascalia a raccontarci, così, l’intenzionalità politica che ha determinato la divulgazione della stessa immagine all’interno della società. Nel momento in cui ogni immagine può destare sentimenti diversi negli osservatori, la didascalia rappresenta senz’altro il tentativo di indirizzare tali sentimenti spontanei in determinati significati politici, spesso stabiliti in precedenza dal divulgatore dell’immagine.
In tale modo, il testo dirigerebbe «il lettore tra i significati dell’immagine», facendone «evitare alcuni e recepire altri» (7), influenzando così il pensiero critico dell’osservatore.
Un tentativo che assume un’estrema e sensibile importanza, soprattutto nel momento in cui una nazione è coinvolta nel sacrificio e nel dramma di una guerra. Le fotografie che riescono a passare il visto delle censure, vengono spesso pubblicate con didascalie che filtrano il senso reale dell’immagine, per propagandare il messaggio della parte in conflitto.
Le fotografie di morte, così, sono state diffuse per illustrare a volte tesi già precostituite, per giustificare il proprio intento di guerra e contemporaneamente legittimare le proprie azioni belliche, per demonizzare il nemico e fomentare l’odio verso di lui, per ostentare la propria potenza repressiva e l’ordine costituito, per negare oppure ostentare la violenza della guerra, a seconda se i morti appartenessero al proprio esercito od al nemico. La fotografia è stata utilizzata per celebrare l’eroismo della guerra o per urlare le sue atrocità conto l’umanità.
«Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose terribili» (8).
L’affermazione di Sontag sulle reazioni suscitate nelle persone dalle fotografie delle atrocità, in tal senso, illustra l’effimera potenza della fotografia, capace di veicolare i sentimenti delle persone a sostegno o contro determinati conflitti, ma ci deve indurre anche a riflettere sulla tremenda impotenza delle immagini, che si rivela pienamente quando le atrocità della guerra vengono accolte dalle persone come un evento inevitabile. Le immagini di morte possono provocare nello spettatore un sentimento di abitudine, di rigetto, come se «la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l’annulla» (9).
La quotidiana presenza di immagini violente nella società odierna fa insorgere il rischio che la capacità critica dell’osservatore si perda nella rassegnazione di accettare la guerra, come una inevitabile presenza nell’esistenza umana. Ma sarebbe un grave errore assimilare le fotografie della morte in guerra ad un genere iconografico, astraendo dalle condizioni politiche e storiche in cui le specifiche immagini sono state prodotte e diffuse. Per una corretta analisi delle immagini stesse, non si deve incorrere nell’errore di effettuare soltanto uno studio stilistico delle fotografie, soffermandosi principalmente sulla composizione della scena ripresa, ma diviene necessario entrare nel dettaglio della fotografia, scavare nella sua natura, concentrarsi nei particolari, cercare di comprendere quale sia stata l’intenzionalità che ha maturato la scelta di produrre una simile immagine, e soprattutto appurare se l’immagine abbia poi risposto fedelmente alla stessa intenzionalità, o se invece, come spesso avviene, la fotografia non abbia lasciato trasparire dettagli ed elementi che ci portino ad una più profonda conoscenza dell’evento rappresentato.
Le immagini di un conflitto, come ha notato De Luna, sono «momenti di verità», rappresentano «tessere di un mosaico che lo storico deve completare con tutte le informazioni e le conoscenze che gli derivano dal complesso delle sue ricerche e delle sue fonti» (10).
A tal punto, nella miriade di immagini di violenza che la storia ha prodotto, il «contesto rimane quindi indispensabile per decifrare le singole specificità che la storia lascia emergere nella nebulosa di quella che viene chiamata barbarie» (11). Perché è proprio il contesto a rappresentare un «elemento cruciale», non soltanto «per lo scatenamento della violenza», ma anche «per prepararla e renderla accettabile e giustificabile» (12).
È lo stesso clima sociale a far sì che emergano determinati atti di violenza. Sono le «concezioni politiche, le identità ideologiche, le capacità tecnologiche che indirizzano a questa o a quella forma di violenza, che diventa a sua volta indicativa e caratteristica del regime che le mette in pratica» (13). È il contesto, come ha scritto Flores, che fornisce al potere le condizioni adeguate «per legittimare l’uso della violenza, per mobilitare le masse a eseguirla o appoggiarla, per discolparsi in anticipo attraverso propaganda e menzogne che il contesto sembra rendere accettabili» (14).
Ma spesso, il significato di una fotografia, il suo senso, può derivare, oltre che dal mutare del contesto storico, anche a causa dell’avanzare del tempo, che può far rileggere le immagini prodotte negli anni precedenti in un’ottica totalmente opposta a quella iniziale.
Molte fotografie delle guerre del Novecento possono ancora oggi portare il loro drammatico messaggio, soltanto se vi è una nazione capace di comprenderle. D’altronde, le fotografie, se a volte non sussiste un ricordo che le possa animare, divengono vuoti trascrittori, come ha raccontato Sartre, sintetizzando l’assenza di una qualsiasi comunicazione fra la fotografia ed una persona, a causa di un passato che non forniva più ricordi, nella geniale frase «questi afrodisiaci non hanno più alcun effetto sulla mia memoria» (15).
L’assenza di una memoria storica può causare la banalizzazione delle immagini attestanti le atrocità della guerra. La quotidiana fruizione di immagini violente, inoltre, tende ad alimentare la triste assuefazione delle popolazioni alla violenza. La circolazione di fotografie attestanti le violenze di guerra si amplia, il senso di denuncia e critica si assottiglia, la memoria svanisce nell’oblio. A tal punto, le fotografie non sono più testimonianze che indignano le coscienze, ma diventano semplici immagini che, accolte per un attimo dalle persone, poi scivolano via, per essere sostituite dalle immagini successive, in un mosaico di continui orrori, smettendo di «essere una testimonianza per diventare parte della scenografia che ci circonda. Ognuno può scegliere comodamente il frammento di orrore con cui decorare di commozione la propria vita» (16), ognuno può scegliere la propria icona per denunciare la guerra o giustificarla, oppure semplicemente può decidere di rimanere indifferente. Nel momento in cui la guerra viene accettata nella sua ineluttabilità, le atrocità vengono assorbite dalle persone, per essere metabolizzate in fotografie, che nulla possono per interrompere la tragedia in atto.

Note

1. Mosse G.L., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, p. 13.
2. Vedi Sontag S., Sulla fotografia, p. 4.
3. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 40.
4. Vedi Schaber I., Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, pp. 123-124.
5. «Oggi perciò, persino nelle testimonianze più decisamente volontarie, ciò che il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita». Vedi Bloch M., Apologia della storia, p. 69.
6. «Per i militanti, l’identità è tutto. E ogni fotografia attende d’essere spiegata o falsificata da una didascalia. Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre nei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte». Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 9.
7. Proprio discorrendo relativamente al testo che accompagna la fotografia stampata, Barthes ha rivelato come esso costituisca «un messaggio parassita, destinato a connotare l’immagine, cioè a “insufflarle” uno o più significati secondi». E se spesso il testo apposto accanto alla fotografia «non fa che amplificare un insieme di connotazioni già incluse nella fotografia» altre volte, il testo diviene di primaria importanza nello studio dell’uso della fotografia, in quanto esso «produce (inventa) un significato interamente nuovo e che viene in qualche modo proiettato retroattivamente nell’immagine, al punto da sembrare denotato». Considerando che ogni immagine è polisemica, Barthes sosteneva che essa «implica, al di sotto dei suoi significanti» una «catena fluttuante» di significati, che «il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare». A questo punto, «in ogni società si sviluppano tecniche diverse destinate a fissare la catena fluttuante dei significati, in modo da combattere il terrore dei segni incerti: il messaggio linguistico è una di queste tecniche». Vedi Barthes R.,L’ovvio e l’ottuso, pp. 15-17 e pp. 28-30.
8. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 11.
9. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p.26.
10. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. XXVI.
11. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. 63.
12. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
13. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 55.
14. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
15. Vedi Sartre J.P., La nausea.
16. Vedi Pérez-Reverte A., Il pittore di battaglie, p. 17.

giovedì 8 giugno 2017

L'omicidio Matteotti nelle fotografie di Porry-Pastorel


Gli uomini trasportavano la cassa di legno dentro cui giaceva il corpo nudo e martoriato di Giacomo Matteotti. 
Era il 16 agosto 1924. 
Il corpo era stato ritrovato nella macchia della Quartarella, sulla via Flaminia, «rannicchiato in una fossa talmente piccola che per costringervelo, era stato brutalmente compresso tanto da provocargli la frattura di alcune costole.» (1)
Erano trascorsi due mesi da quel pomeriggio del 10 giugno in cui Matteotti era stato rapito da Amerigo Dumini, Giuseppe Viola, Albino Volpi, Augusto Malacria ed Amleto Polveromo: cinque sicari fascisti appartenenti alla Ceka, un'organizzazione di polizia segreta allestita da Mussolini e guidata da Cesare Rossi, all'epoca Capo dell'Ufficio Stampa di Mussolini, e Giovanni Marinelli, un segretario amministrativo del PNF.
Qualche settimana prima del rapimento, durante la seduta parlamentare del 30 maggio, Matteotti aveva pronunciato un coraggioso intervento con cui aveva denunciato le intimidazioni, le violenze ed i diffusi brogli elettorali commessi dal PNF per vincere le elezioni avvenute nel mese di aprile; ed il giorno successivo al rapimento, egli avrebbe pronunciato alla Camera un nuovo discorso con cui intendeva denunciare la dilagante corruzione che coinvolgeva alcuni esponenti del fascismo e lo scenario di affarismo e tangenti che aveva portato alla stipula del contratto tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil.
Era stato il fotografo Adolfo Porry-Pastorel a riprendere le drammatiche scene del ritrovamento del cadavere di Matteotti.
Titolare dell'agenzia fotografica Vedo (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque), da lui fondata nel 1908, Porry-Pastorel era un fotografo di cronaca che, collaborando con i quotidiani La Vita ed Il Giornale d'Italia, aveva testimoniato molti avvenimenti politici del periodo, fra cui il ritorno di Orlando e Sonnino dalla Conferenza di Pace di Parigi; gli squadristi armati di bastoni posare sorridenti in foto ricordo accanto al deputato comunista Francesco Misiano, dopo che lo stesso era stato malmenato e costretto ad uscire dal Parlamento per poi essere deriso e trascinato con un cartello appeso al collo in un corteo che aveva percorso tutta via del Corso.
Nei giorni della marcia su Roma, Porry-Pastorel aveva fotografato le squadre fasciste attraversare la città, posare fiere di fronte alle sedi distrutte dell'opposizione, infiammare i giornali e le riviste dei sindacati, marciare impunite nelle strade, brandendo manganelli od innalzando i ritratti di Marx e Lenin, precedentemente trafugati nelle sedi assalite ed ora osteggiati come bottini di guerra prima di essere distrutti.
E quando Mussolini, nella mattina del 30 ottobre, era giunto nella capitale da Milano, dove si era rifugiato in attesa che gli eventi culminassero, il fotografo aveva ritratto il futuro duce mentre posava insieme ai quadrumviri, cercando così di inscenare una propria partecipazione epica a quelle giornate, nonostante nella realtà per lui, come ha scritto negli anni Mack Smith, la marcia su Roma «non fu che un viaggio in treno in risposta ad un esplicito invito del sovrano» (2); o per usare le parole di Monelli, «fu una comoda corsa in carrozza-letti, con ferrovieri ossequienti, e due mazzi di rose nel lavandino; e folle di fascisti plaudenti alle stazioni, e addirittura un trionfo da Civitavecchia in giù; vestito di scuro, la camicia nera sotto la giacchetta, e un modesto impermeabile.» (3)
Quella non era la prima volta che Porry-Pastorel ritraeva Mussolini. Era stato sempre lui, infatti, a fotografare l'arresto di Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915, ritraendo il futuro duce mentre veniva strattonato e portato via per il colletto del cappotto dai poliziotti intervenuti per sedare la manifestazione. 
Una fotografia che fu pubblicata sulla prima pagina del Giornale d'Italia e che Mussolini sembrava non avesse mai perdonato al fotografo.
Proprio a Porry-Pastorel si era rivolta Velia Titta, la moglie di Matteotti, quando una mattina di giugno si era recata presso lo studio Vedo per commissionargli un reportage privato che documentasse le indagini concernenti l'onorevole rapito, facendosi prima assicurare che tutte le fotografie scattate non sarebbero state inviate ai giornali. (4)
E Porry-Pastorel iniziò a percorrere Roma e le campagne del Lazio sopra di un furgone da lui stesso attrezzato come una camera oscura, per realizzare quel delicato reportage.
Quando la mattina del 27 giugno, Matteotti fu commemorato con dieci minuti di raccoglimento in tutte le città, Porry-Pastorel fotografò le persone che accorrevano sul lungotevere Arnaldo da Brescia, luogo dove era avvenuto il rapimento, lasciando, a testimonianza di quel cordoglio unanime che animò la popolazione, la fotografia che ritraeva una giovane madre inginocchiata mentre osservava il proprio figlio piccolo posare un fiore accanto alle corone deposte sotto una croce color vermiglio, che una mano ignota aveva tracciato sul parapetto ad indicare il «sito del martirio» ed attorno a cui «crebbe una selva di fiori e candele.» (5)
Durante quelle settimane, Porry-Pastorel produsse «decine di scatti rubati, eccezionali per contenuto informativo, di un dinamismo sconosciuto al foto-giornalismo coevo, tranne ai grandi pionieri.» (6)
Egli «fotografò le macchine coi magistrati e i carabinieri» che correvano «sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata» che qualche giorno prima qualcuno aveva deposto nelle vicinanze della fossa forse proprio per indirizzare il ritrovamento, «il recupero pietoso della salma, i leader socialisti Turati e Treves convocati per il riconoscimento, la simulazione giudiziaria del rapimento, i ritratti dei testimoni», uno spazzino e due ragazzi che giocando per strada avevano assistito all'aggressione ed avevano identificato tramite la targa la Lancia guidata da Volpi e Dumini che era stata usata per il rapimento e dentro cui era maturato il brutale omicidio.
Se «alcune immagini apparvero nei giornali antifascisti dell'epoca», l'intera sequenza delle fotografie, tuttavia, fu raccolta dalla moglie Velia in un album «istoriato d'oro» e così custodito dagli eredi. (7)


Note:


(1) Vedi Canali M, Quel delitto che sconvolse l'Italia, in Diario di Repubblica, la Repubblica del 17 aprile 2004, pag. 41.
(2) Vedi Mack Smith D., Storia d'Italia dal 1861 al 1997, pag. 431.
(3) Vedi Monelli P., La marcia su Roma, in Storia Illustrata, n. 179, Ottobre 1972, pag. 21.
(4) Vedi Colasanti V., Scatto matto. La stravagante vita di Adolfo Porry-Pastorel, il padre dei fotoreporter italiani.
(5) Vedi Colasanti V., Scatto matto, op. cit.; Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia. Un reportage racconta, in Diario di Repubblica, la Repubblica del 17 aprile 2004, pp. 42-43.
(6) Vedi Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia, op. cit., pp. 42-43.
(7) Vedi Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia, op. cit.; Smargiassi M., Fotografo Ovunque Tutto, in La Domenica di Repubblica, n. 418, 10 marzo 2013, pp. 34-35; Caretti S., Il delitto Matteotti. Storia e memoria.



giovedì 20 ottobre 2016

La Camera Chiara di Roland Barthes

 

Era l'ultimo anno d'università. Mi aggiravo fra gli scaffali di una libreria - nel settore Fotografia - alla ricerca di qualche libro che potesse essere di aiuto per la tesi che stavo preparando. 
Mi sarei laureato alla facoltà di Scienze Politiche con una tesi in Storia Contemporanea. L'argomento che avevo scelto di trattare era la produzione fotografica dell'Istituto Luce durante il ventennio fascista. Volevo cercare di analizzare e narrare come la fotografia avesse rappresentato la realtà dell'epoca e quale fosse stato l'uso politico che il regime fascista aveva effettuato di quelle fotografie. 
Una volta a settimana mi recavo presso l'Istituto Luce per visionare il materiale fotografico presente nei loro archivi. Avevo preso anche l'abitudine di recarmi presso l'Archivio Centrale di Stato alla ricerca di quelle disposizioni emesse nel corso del ventennio sulla fotografia per cercare di analizzare le eventuali finalità politiche che il regime fascista - attraverso i ministeri preposti che si erano succedui negli anni fino alla istituzione del Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) - assegnava alla fotografia.
E fu così che - mentre lo sguardo scorreva sui volumi presenti sullo scaffale - trovai La camera chiara di Barthes. 
Avevo letto su altri libri alcune citazioni di questo saggio che mi avevano spinto ad annotarlo fra i titoli da leggere. Sul tram di ritorno a casa aprii le pagine ed iniziai a leggere:
Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l'Imperatore». 
Era la primavera del 1979 quando Roland Barthes iniziò a scrivere queste parole.
Una serie di note, disgressioni, riflessioni - come recita nella quarta di copertina del libro - su cosa fosse la fotografia.
Colto da un desiderio «ontologico» - come scrisse lui stesso - Barthes voleva a ogni costo sapere cos'era la fotografia «in sé», attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.
Dopo aver scoperto che ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente Barthes osservava come una fotografia possa essere l'oggetto di tre pratiche - fare, subire, guardare - a cui corrispondono tre soggetti presenti nella fotografia: l'Operator, che è il fotografo; lo Spectator che è la persona che osserva la fotografia; e lo Spectrum ossia chi è  fotografato. 
Ma il momento della lettura che suscitò in me maggior interesse fu quando Barthes iniziò a riflettere e discorrere sul rapporto che si instaura fra la fotografia e l'osservatore. 
Nelle fotografie spesso compaiono dettagli - di persone o luoghi od altri infiniti dettagli - che il fotografo in quel momento non ha notato o - qualora notati - non ha potuto fare a meno di escludere, e che emergono nella loro presenza a connettere e indicare altri significati nell'immagine stessa.
Perché alcune fotografie attraevano Barthes provocando in lui gioie sottili ed altre invece lo lasciavano talmente indifferente fino a fargli provare alla lunga una sorta di avversione od irritazione? 
Cosa rende una fotografia attraente e cosa la rende indifferente o peggio ancora irritante?
Barthes, analizzando alcune fotografie, arrivò a definire come in ogni fotografia coesistano due elementi: lo studium, che consiste nell'interessamento culturale o personale, proveniente dall'osservatore e rivolto verso la fotografia, ed il punctum, una sorta di ferita provocata da una freccia che parte dalla fotografia e raggiunge l'osservatore a carpire la sua attenzione. È la presenza del punctum, di quel particolare che mi attrae, a dare un nuovo senso ed un nuovo valore alla fotografia che osservo.
Dopo aver riflettuto sull'indefinita essenza del punctum, mi colpirono ancor più le riflessioni di Barthes quando iniziò a riordinare alcune fotografie della madre morta, risalendo a poco a poco il tempo assieme a lei, cercando la verità del volto che avevo amato fin quando finalmente non la scoprì in una vecchia fotografia cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d'un color seppia smorto in cui la madre era ritratta da bambina.
Proprio osservando quella fotografia Barthes ritrovò la propria madre.
Sono pagine intense di riflessioni sulla madre, sulla morte ed il dolore, sulla malattia e sulla cura verso la persona cara, sulla fotografia e la sua essenza, sul lutto che non cancella il dolore, sul Tempo che elimina l'emozione della perdita (non piango), e basta.
E forse l'essenza della fotografia, secondo Barthes, è che essa dice ciò che è stato, ratifica ciò che essa ha ritratto. E così ecco che dalla fotografia parte allora un nuovo punctum che è il Tempo. 
Queste furono le note e le riflessioni che all'epoca più mi colpirono, insegnandomi un nuovo modo di pormi nei confronti della fotografia e nel suo metodo di studio. 
Negli anni avrei letto altre volte quelle note e riflessioni di Barhes, e spesso avrei trovato nuovi significati magari sfuggiti a quella prima lettura, ma sarebbe sempre rimasta ferma la convinzione che La camera chiara rimanga un saggio caposaldo, un testo fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla fotografia ed entrare nel suo misterioso ed affascinante mondo.

lunedì 26 settembre 2016

Le forche della Libia



La forca era stata eretta al centro della Piazza del Pane di Tripoli. I corpi impiccati dei quattordici ca­potribù erano ostentati alla popolazione, che li os­ser­vava rimanendo addossata contro le mura dei pa­lazzi ai margini della piazza.
«La vista di quei corpi allineati, irrigiditi nella morte con il collo spezzato e reclinato, gli abiti cen­ciosi, doveva servire», come ha scritto Del Boca, «per da­re un esempio salutare ai “ribelli”» (1).
Era il dicembre del 1911. Il conflitto italo-turco era iniziato da pochi mesi. Diverse erano state le motivazioni che avevano spinto l’Italia all’impresa coloniale, dagli interessi economici dei gruppi indu­striali e finanziari alle missioni civilizzatrici benedette dai vescovi, dai desideri bellicisti dei nazio­na­listi al ruolo della stampa che ormai indicava la Libia come la «quarta sponda» necessaria per rista­bilire un equilibrio nel Mediterraneo. A convincere Giolitti a dichiarare guerra alla Libia, aveva proba­bilmente contribuito anche la percezione che la guerra sarebbe stata rapida e vittoriosa. La propa­ganda, d’altronde, aveva costantemente raffigurato la popolazione araba desiderosa ormai soltanto di essere liberata dal dominio turco. Lo stesso console generale a Tripoli, Carlo Galli, escludeva con cer­tezza ogni collusione fra turchi ed arabi. Dichiarato come impossibile che un appello alla guerra santa avrebbe potuto unire le popolazioni locali, Galli as­sicurava che i soldati italiani sarebbero stati si­cura­mente accolti come liberatori.
Ai primi dell’ottobre del 1911, così, circa trenta­cinquemila uomini, al comando del generale Carlo Caneva, sbarcarono sulle coste libiche ed iniziarono a prendere possesso dei primi territori. Anche se i primi reparti fotografici dell’esercito italiano furono istituiti nel 1896 (2), la guerra italo-turca rappresentò senz’altro «il banco di prova degli uomini e dei mezzi della Sezione fotografica, l’occasione per sperimentare in guerra tutte le possibili applicazioni della fotografia all’arte militare».
La Sezione Fotografica Militare, al comando del tenente Cesare Antilli, inizialmente dispose la sua sede a Tripoli, dove fu allestito anche un labora­torio fotografico. Successivamente, furono create al­tre due squadre che si stabilirono a Bengasi e a Zuara (3).
I fotografi produssero istantanee di carat­tere ope­rativo e tattico, intervenendo anche «dall’alto di di­rigibili, aerostati ed aeroplani Blérot e Nieuport, per fornire ai comandi rilevamenti sui territori, dati pre­cisi alle batterie di cannoni ed immagini dei dispo­sitivi militari degli avversari arabo-turchi, contri­buendo così, per la prima volta nella storia delle imprese militari, a rendere la guerra più tecnica e con risultati più micidiali». Altre fotografie, invece, docu­mentavano gli armamenti a disposizione delle truppe italiane, cercando di celebrare la perfezione dell’organizzazione dell’esercito e del conflitto.
Accanto alla Sezione Fotografica, sui campi di battaglia, si aggirarono anche i corrispondenti dei giornali e molti fotografi professionisti, come Luca Comerio, che intendeva, attraverso le sue fotografie ed i suoi filmati, «documentare l’eroismo e la su­pe­riorità militare e morale delle truppe italiane» (4).
La fotografia diveniva uno strumento di enfatiz­za­zione della guerra come esperienza eroica e virile. I sog­getti maggiormente rappresentati e diffusi erano ancora gli armamenti ed i soldati, oltre ai consueti scorci di panorama esotici. La tipologia della foto­grafia ricordo, in molte occasioni, era ancora la rap­presentazione fotografica più diffusa. Molte fo­to­grafie furono riprodotte nei giornali illustrati o nei volumi scritti dai vari corrispondenti. Nel 1913, i Fratelli Treves pubblicarono l’Album Portfolio della guerra Italo-Turca per la conquista della Libia, 1911-1912, composto essenzialmente dalle fotogra­fie pubblicate sulle pagine della rivista L’Illustra­zione Italiana, a tessere appunto un racconto epico della guerra svolta. Se simili pubblicazioni rimane­vano ristrette ad un uso riservato alle classi più ab­bienti ed istruite; per i ceti meno abbienti o poco al­fabetizzati, furono pubblicate e commercializzate apposite ampie serie di cartoline per raccontare l’e­sperienza in Libia.
Ma l’immagine della guerra serena, dell’incolu­mità e della potenza delle truppe italiane, fu ben presto incrinata dalla drammatica realtà. La mattina del 23 ottobre, infatti, le truppe ita­liane furono at­taccate tra forte Messri e Sciara Sciat. A muovere l’assalto non furono soltanto le truppe turche, ma anche gli stessi abitanti delle oasi e di Tripoli. Fu una vera e propria rivolta, a cui par­teciparono civili e guerriglieri, uomini e donne, ca­ratterizzata da una spietata violenza. A Sciara Sciat, due compagnie di bersaglieri dell’XI reggi­mento furono accerchiate e in poche ore massacra­te. Del Boca ha quantificato in 21 ufficiali e 482 uomini di truppa uccisi il bilancio dei combattimen­ti (5). In al­cune fotografie, si ve­devano i cadaveri dei soldati italiani crocifissi sul terreno (6). I corpi dei bersa­glie­ri morti, infatti, giacevano «insepolti ovun­que; mol­ti» erano «inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti» avevano «cucito gli oc­chi con lo spago; molti» era­no «stati messi sotto terra fino al collo», si vedeva «solo la testa; moltis­simi» avevano «avuto le parti genitali tagliate» (7). Le im­magini del massacro ini­ziarono a circolare an­che in patria, spesso attraver­so le cartoline spedite dagli stessi soldati. Per cerca­re di limitare la diffu­sione di simili immagini, nel dicembre del 1911, Giolitti in­viò il seguente tele­gramma al prefetto di Milano:
«Consta che i corrispondenti giornali hanno preso fotografie delle crudeli atrocità commesse dai Tur­chi e Arabi sui nostri soldati. Pubblicazioni di simili fotografie produrrebbe la più penosa impressione nel pubblico. Pregola adoperarsi presso giornali perché pubblicazione non avvenga, facendone com­prendere assoluta inopportunità. Proibisca poi in modo assoluto rappresentazione di tale crudeltà dei cinematografi. Mi assicuri esecuzione» (8).
Se le immagini dei propri soldati morti non erano tollerate dal governo italiano, di converso, presto iniziarono a essere diffuse alcune cartoline il cui messaggio iconografico era quello dell’ordine che le truppe italiane stavano riportando in colonia. In alcune cartoline il plotone di esecuzione si era mes­so in posa per il fotografo, disponendo ai propri piedi i corpi dei civili fucilati. Emblematica era la didascalia che così recitava:
«La fucilazione degli arabi, che a tradimento as­salirono alle spalle gli eroici bersaglieri dell’11° Regg. nel combattimento a Sciara Sciat».
In altre cartoline, invece, era ripreso il mo­mento della preparazione delle esecuzioni, ritraen­do i soldati con il fucile in mano e lo sguardo verso il fotografo, e sullo sfondo, seduti per terra, «arabi catturati nel caseggiato dove partirono i colpi a tra­dimento» contro il reggimento «in attesa di essere fucilati». La didascalia e la cartolina, come ha nota­to Mignemi, confermavano più o meno inconsape­vol­mente «il carattere di esecuzione sommaria» di si­mili fucilazioni, essendo le vittime state «prescel­te perché trovate in un edificio», senza che fosse «sta­to istruito nei loro confronti un procedimento per accertare le responsabilità reali».
Lo sgomento della sconfitta dei soldati italiani fu trasformato in un sentimento di odio che fomentò e incitò le violente ed arbitrarie rappresaglie com­messe dagli italiani contro la popolazione locale, e le successive depor­tazioni dei sopravvissuti alle re­pressioni.
Furono ol­tre quattromila le esecuzioni sommarie ed indiscri­minate avvenute nei tre giorni che segui­rono lo scontro di Sciara Sciat. I soldati italiani in­cendiarono i villaggi, sventrarono con le baionette donne e bambini, violentarono le donne e massa­crarono gli anziani. Questo odio veniva alimentato dalla continua propaganda, che indicava gli arabi di Tripoli come vili traditori. Giornali e propaganda usavano parole forti, non risparmiando di narrare i più violenti episodi della rivolta, cercando, come ha notato sempre Del Boca, «di accreditare la tesi di un tradimento che non c’era mai stato, ma che tutti avevano paura di indicare con il suo vero nome, cioè ribellione».
La violenta rivolta di Sciara Sciat, infatti, aveva rivelato come fossero errate le tesi di chi aveva pre­visto una facile accoglienza dei soldati italiani da parte della popolazione libica. Se la realtà aveva drammaticamente dimostrato come la propaganda fosse stata fuorviante, ora la propaganda doveva ri­creare un nuovo scenario nell’immaginario della popolazione italiana, al fine di mantenere salda l’adesione al conflitto. La censura italiana iniziò a cer­care di celare gli eventi di repressione che im­per­versarono in quei giorni, ma confrontando diver­se fon­ti, si quantificarono in oltre quattromila le ese­cuzioni sommarie ed indiscriminate perpetrate con­tro la popolazione civile nei tre giorni successivi all’attacco di Sciara Sciat. Fu proprio durante questi massacri che la fotografia iniziò a divenire anche uno strumento di critica politica e di denuncia dei crimini di guerra. Le fotografie delle repressioni ita­liane erano documenti con cui l’opposizione po­teva testimoniare le proprie argomentazioni politi­che e la propria protesta.
Il giornalista Paolo Valera fece così stampare nel 1911, in centomila esemplari, un opuscolo di de­nuncia intitolato Le giornate di Sciarasciat fotogra­fate (9), rappresentando un atto di accusa contro la politica coloniale di Giolitti ed il generale Caneva. Nelle trentadue pagine che componevano il volu­me, si susseguivano le immagini più atroci della re­pres­sione perpetrata contro la popolazione locale. Le fotografie raccolte da Valera testimoniavano le rap­presaglie, le fucilazioni di massa, i processi somma­ri, gli incendi e le razzie commesse nei vil­laggi. Ma la fotografia consegnò «di quei giorni di terrificante rappresaglia» un’immagine che poteva «ben essere considerata un simbolo di quell’ingiu­sta e spietata guerra» (10).
La fotografia, infatti, testi­moniò la forca eretta nella Piazza del Pane a Tripoli per l’impiccagione dei quattordici capotribù; immagine che suggerì al socialista Scalarini di realizzare per l’Avanti «quei tremendi disegni satirici che inchiodavano Giolitti e compagni alle loro responsabilità», presentando al pubblico italiano le forche a più posti che compone­vano macabri alberi di Natale. Nonostante la propaganda continuasse all’interno della nazione a diffondere il mito del soldato italiano buono che aiutava e educava il traditore arabo, la repressione continuò anche negli anni successivi e «le forche fiorirono ovunque in Libia, come gramigne inestir­pabili».
L’esposizione in pubblico del corpo impiccato era un messaggio con cui il colonizzatore ostentava la propria potenza, una cruenta celebrazione dell’effi­cienza della propria giustizia. La forca diventava al­lo stesso tempo strumento di repressione e di inti­midazione. Anche dopo la firma del trattato di pace, l’impiccagione dei guerriglieri arabi rimase il pri­mario strumento per cercare di dominare l’imper­versante ribellione nei territori libici. Le immagini delle forche accesero presto anche il dibattito parla­mentare sulla politica coloniale italiana, quando Filippo Turati le mostrò durante una seduta parla­mentare a de­nunciare le atrocità commesse dall’e­sercito italiano in nome della presunta civilizzazio­ne. Lo scandalo emerse dopo che l’Avanti, il 5 dicembre 1913, ave­va pubblicato una serie di foto­grafie che documen­tavano le impiccagioni di alcuni arabi effettuate dai soldati italiani. Nella seduta del Parlamento del 18 dicembre, Turati pronunciò un discorso con cui de­nunciava e condannava la vio­lenza della politica coloniale del governo.
«Ho sentito dire dal Re, pochi giorni or sono, che l’acquisto della Libia dà all’Italia una grande mis­sione di civiltà, e che abbiamo come primo fine quello di renderci amiche quelle popolazioni, col ri­spettarne la religione, la proprietà e la famiglia e col far loro apprendere i benefici della civiltà. Ma io vedo dappertutto l’ombra della forca protendersi sulla vostra impresa! […]
Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve per mezzo dei carabinieri una sportula di cinque franchi. […]
Io mi domando se siamo in Italia, e se il governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia» (11).
Ma nonostante le denunce e le critiche dell’oppo­sizione, le esecuzioni capitali continuarono ad esse­re emesse, spesso senza che le vittime fossero state giudicate da un giusto processo, condannate colpe­voli da sentenze a volte prive di reali motivazioni.
E così continuarono anche le macabre esposizioni della morte in pubblico. Molte furono le fotografie che testimoniarono l’imperversare delle impicca­gioni. Interessante, in merito, è la documentazione prodotta da Raffaele Tartaglia (12), un artigiano di Altavilla Irpina che si trovò in Libia dal 1929 al 1931. Essendogli stato commissionato di trovare una procedura per rendere più efficienti le forche per le impiccagioni, egli scattò una serie di fotografie a diverse esecuzioni avvenute in quegli anni di re­pressione contro la guerriglia.
La repressione in Libia, durante il fascismo, di­venne di anno in anno sempre più sistematica. Al fine di reprimere la resistenza che ancora imperver­sa­va nella Senussia, e per cercare anche di inter­rom­pere il legame che intercorreva fra le popolazio­ni del Gebel cirenaico e la guerriglia, Badoglio e Gra­ziani fecero deportare circa 80.000 civili per es­se­re poi confinati nei campi di concentramento del­la Sirtica (13).
Il controllo del regime fascista sulla fotografia, tuttavia, divenne più capillare e sistematico. Diffici­le trovare nelle fotografie ufficiali scene di repres­sione. Ma la fotografia privata, invece, spesso do­cumentò l’efferatezza delle impiccagioni, testimo­niando anche il rituale preparato per ostentare l’im­piccagione di Omar el Muktar (14), nel campo di con­centramento di Soluch, davanti ai notabili confinati a Benina e a ventimila libici provenienti dai vicini lager. Affinché la sua impiccagione costituisse un monito verso i guerriglieri, infatti, i condannati re­clusi in diversi campi di detenzione furono condotti sul luogo dell’esecuzione, per assistere alla condan­na.
«L’impiccagione del settantenne Omar el Muktar, il 16 dicembre 1931, davanti a ventimila deportati», concludeva «praticamente la più sanguinosa fra le campagne repressive ordinate dal regime», ma allo stesso tempo anticipava, per lo «stile» e «l’efficien­za degli esecutori», quelle che negli anni successivi sarebbero «state scatenate in Etiopia» (15).
E fu proprio durante la guerra d’Etiopia che la fotografia fu as­sunta a divenire un importante stru­mento dell’imperialismo fascista.



Note:

(1) Vedi Del Boca A.,  Italiani, brava gente. Un mito duro a morire, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005, p. 112.
(2) Il 1 aprile 1896 fu istituita una sezione fotografica presso la Brigata Specialisti del III Reggimento Genio a Roma.
(3) Vedi Rosati A., Immagini delle campagne coloniali. La guerra Italo-Turca 1911-1912, Ufficio dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000.
(4) Vedi Causa C., La guerra italo-turca e la conquista della Tripolitania e della Cirenaica, Salani, Firenze, 1913.
(5) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., p. 111.
(6) Vedi Palma S., L’Italia coloniale, op. cit., pp. 76-79.
(7) Vedi Piccioli F., Diario di un bersagliere, Il Formichiere, Milano, 1974, p. 26.
(8) Archivio di Stato, Milano, fondo «Gabinetto di Prefet­tura», I vers., c. 567, telegramma cifr. N. 31498 del 5 dicembre 1911.
(9) Vedi Valera P., Le giornate di Sciarasciat fotografate, Stabilimento tipografico Borsani, Milano, 1911. Le immagini delle fucilazione e delle rappresaglie furono testimoniate anche da altri fotografi. A tal proposito vedi AA.VV.,…Ausonia in­tanto ha una colonia. Immagini del colonialismo italiano, Artegrafica Bolzonella, Padova, 1985; Angrisani A., Immagini della guerra di Libia, Lacaita, Manduria, 1997.
(10) Vedi Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit.,  p. 111.
(11) Camera dei Deputati, Atti parlamentari, legislazione XXIV, sessione I, tornata del 18 dicembre 1913, pp. 555-557.
(12) Vedi Labanca N., (a cura di), Un nodo. Immagini e do­cu­menti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Pietro Lacaita, Roma Bari, Manduria 2002, pp. 5-114.
(13) Del Boca ha ricordato come nel biennio 1930-31, dai 40.000 ai 60.000 abitanti del Gebel morirono «nel corso delle azioni repressive e per il tifo petecchiale contratto nei campi di concentramento». Sempre Del Boca ha ricordato come lo stes­so Badoglio riconobbe l'estremo rigore della misura, ma anche come ne giustificò la necessità, sostenendo come essa dovesse essere perseguita «sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». Vedi Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale II, La conquista dell'Impero, Oscar Monda­do­ri, Milano, 2001, p. 15; Del Boca A., Italiani, brava gente? op. cit., pp. 165-182.
(14) Fu il fotografo Puletti a riprendere i momenti della cattura di Omar el Mukhtar, un capo militare della guerriglia contro gli italiani, avvenuta l’11 settembre del 1931, riprendendo il leader della resistenza pirenaica accerchiato dai soldati del 7° squa­droni savari guidato dal capitano Bertè.
(15) Vedi Del Boca A., La conquista dell'Impero, op. cit., p. 16.






Tratto da La guerra d'Etiopia. La fotografia strumento dell'imperialismo fascista


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