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venerdì 11 ottobre 2019

La straniera di Claudia Durastanti




LA STRANIERA 

CLAUDIA DURASTANTI


Si rimane rapiti da questo libro - la cui originale architettura è anticipata dal sommario con le parti denominate come a voler descrivere l’oroscopo di un’esistenza - sin dalle prime pagine, in cui l’autrice presenta le versioni dei genitori sul loro primo incontro, che seppur discordanti negli eventi, hanno in comune il fatto che entrambi affermino di aver salvato l’altrui vita. 

Da lì, inizia la narrazione - con bellezza di linguaggio ed eleganza di scrittura - di una storia familiare e generazionale che attraversa gli anni ed i luoghi in cui l’autrice ha vissuto: nata e cresciuta negli anni dell’infanzia a Brooklyn, di cui ha conosciuto soltanto la comunità italo americana ed i quartieri ad essa legati; tornata con la madre ed il fratello in Basilicata a trascorrervi la propria adolescenza; stabilitasi a Roma durante gli studi universitari e le prime esperienze di lavoro; andata a vivere a Londra, dove assiste al declino del paese e vive sulla propria pelle le difficoltà dell’integrazione. 

Mescolando con forma sperimentale pagine di letteratura a pagine di saggistica, la scrittrice affronta ulteriori temi: la disabilità dei genitori - entrambi affetti da sordità hanno cercato di vivere quella condizione come se non fosse un limite -; il rapporto con la lettura, quando nella soffitta della casa ha scoperto i romanzi beat o il capolavoro di Selby Jr e con essi il desiderio della scrittura; le esperienze amorose che ci conducono alla conclusione del romanzo. 

Sarebbe però riduttivo classificare questo straordinario romanzo nel genere memoir. 

La memoria non è usata in un processo catartico di resa di conti con il proprio passato, ma viene esplorata come se il romanzo fosse l’origine di una nuova vita che sta nascendo. 

Non voglio svelare nulla di più, per non rovinare ai lettori la scoperta di questo sorprendente libro, che conferma il talento di Claudia Durastanti e l’annovera tra le più interessanti scrittrici contemporanee italiane. 


Leggi la trama de LA STRANIERA






martedì 27 novembre 2018

La bellezza eterna di un capolavoro - L'idiota di Fedor Dostoevskij


La bellezza salverà il mondo. 
Così afferma il principe Miškin indimenticabile protagonista del romanzo L’idiota di Fëdor Dostoevskij, nella cui persona l’autore incarna la bontà e la purezza dell’animo umano, con una fede ed un atteggiamento nei confronti della vita e del prossimo che a detta di molti critici lo fa assomigliare alla figura di Cristo. 
Ultimo discendente di una famiglia nobile ormai decaduta, il principe Miškin ritorna in Russia dopo un soggiorno in Svizzera in cui si era recato per curarsi dall’epilessia da cui è afflitto. 
Sin dalle prime pagine, inizierà ad incontrare gli altri importanti personaggi che animeranno il libro - Rogožin, il generale Epan?in, Nastas'ja Filippovna, Aglàja -, i cui destini spesso si incontreranno nelle meravigliose pagine del romanzo di Dostoevskij considerato uno dei maggiori capolavori della letteratura russa. 
Pur essendo passati molti anni dopo la sua prima lettura, posso senz’altro affermare come la bellezza di questo libro – di cui ne consiglio vivamente la lettura - rimanga sempre intatta nonostante il trascorrere del tempo.  



La schiuma dei giorni di Boris Vian


Avevo diciassette anni quando sentii pronunciare per la prima volta il nome di Boris Vian. Ascoltavo per caso Ivano Fossati suonare - durante una trasmissione televisiva - la canzone Il disertore. Conclusa l’esecuzione del brano da parte del cantautore, fu specificato come la versione originale di quella canzone pacifista - di cui poi recuperai il testo in francese - fosse stata scritta da Boris Vian nel 1954. Negli anni successivi, ebbi modo di leggere anche altri libri da lui scritti. Così avvenne con la raccolta di poesie Non vorrei crepare - di cui trovai una vecchia edizione della Newton Compton in una bancarella vicino l’università - o con il noir Sputerò sulle vostre tombe, che aveva firmato usando lo pseudonimo di Vernon Sullivan.
E quando qualche anno fa - in prossimità dell’uscita del film Mood Indigo di Michael Gondry - nei giornali si tornò a parlare del suo romanzo, scritto nel 1946, La schiuma dei giorni - da cui il film era tratto e da molti considerato il suo capolavoro letterario -, mi promisi che, appena ne avrei avuto occasione, lo avrei letto. Acquistai l’edizione in commercio della Marcos Y Marcos, un’edizione ben curata che, oltre a presentare un'interessante prefazione di Fossati ed un'invervista a Pennac per postfazione, è corredata spesso da note in cui si cerca di spiegare alcuni giochi di parole inventati dall’autore nella lingua originale, nel caso che a seguito della traduzione avessero perso la propria efficacia.
Ed ora, approfittando di questi giorni di feste, ne ho iniziato la lettura. Lentamente sono entrato nel mondo di Colin - il protagonista attorno a cui ruotano le vicende narrate nel libro -, un giovane benestante che vive assieme al suo cuoco personale Nicolas in un appartamento di Parigi, e che trascorre le sue giornate spesso in compagnia dell’amico Chick - un ingegnere ossessionato dall’acquistare e possedere qualsiasi copia delle opere scritte dal suo filosofo preferito Jean Sol Partre - e la giovane Alise - fidanzata di Chick e nipote di Nicolas.
Ma è l’amore e l’innamorarsi che Colin desidera follemente. E quando durante una festa incontra la bella Chloe, Colin s’innamora subito di lei. Decidono di sposarsi pochi giorni dopo. Colin non bada a spese per organizzare un fastoso matrimonio e decide anche di donare un quarto delle sue ricchezze a Chick così che anche lui possa permettersi di sposare Alise.
Sono molte le immagini surreali che caratterizzano il libro, frutto della fervida fantasia dell’autore che inventa scene di continuo: anguille che fuoriescono dai lavandini per essere cucinate con particolari ricette d'alta cucina; pianococktail che versano cocktails seguendo l’armonia delle note che si suonano sulla tastiera del pianoforte; topi che dimorano nei corridoi e nelle stanze dell’appartamento assieme ai coinquilini con cui a volte conversano a loro modo; marciapiedi che seguono l’umore dei passanti; vetri colorati che si possono alzare nella macchina per velare il plumbeo del mondo attorno; nuvole profumate di coriandolo ed erba di montagna che durante la cerimonia nuziale entrano nella chiesa - dipinta appositamente per l’occasione a strisce gialle e viola.
Ma lentamente l’atmosfera lieve ed ironica del libro inizia a diminuire man mano che Chloe di ritorno dal viaggio di nozze - che li aveva condotti nel Sud della Francia lungo strade dissestate e fangose - si ammala - una ninfea che le cresce nel polmone destro e le rende faticoso il respirare.
E anche quell’appartamento prima maestoso con l’avanzare del tempo e della malattia si restringe sempre più su se stesso. E le splendide vetrate si opacizzano e non lasciano più passare come una volta i vividi raggi del sole. Ed i colori sgargianti con cui la fantasia dell’autore aveva rivestito il mondo del protagonista lentamente iniziano ad incupirsi con l’aggravarsi della salute di Chloe. Ed anche i dobloncioni delle ricchezze di Colin iniziano ad esaurirsi per le impellenti cure di cui necessita Chloe: l’acquisto quotidiano di fiori per alleviare le sofferenze della malattia e debellare la ninfea.
Si avvicina sempre più il tragico epilogo della loro storia d’amore, il cui finale non descrivo né commento per lasciare ad ognuno l’intensità della lettura.
Per certi, mentre leggevo quelle pagine, mi sono tornate in mente le vicende di Jacques e Francine narrate da Henri Murger nella sua Vita da Boheme.
Anche la storia tra Chick e Alise si avvia verso un drammatico finale, dopo che Chick avrà esaurito i soldi donatigli da Colin non per il matrimonio, ma per seguire la sua ossessione di acquistare qualsiasi edizione o cimelio di Partre.
Considerato da molti una tenera favola d’amore per adulti – Queneau lo definì il più straziante dei romanzi d’amore contemporanei - od anche un romanzo d'iniziazione, La schiuma dei giorni è sì un libro sull’amore, sulla sua ricerca e sul suo desiderio, su come esso – una volta trovato - possa cambiare la vita di una persona, sulla gioia di sentirsi innamorati e di poter amare; ma è anche uno struggente libro sulla malattia che restringe il tempo e consuma le energie e le risorse di chi è malato e di chi vive accanto alla persona malata nella speranza di curarla e salvarla.
Forse non è un libro che possa piacere a tutti - considerando la particolarità della scrittura e l’animo surrealista ed anticonformista dell’autore che spesso la contraddistingue -, ma ritengo che sia senz’altro un libro da leggere con attenzione, anche perché sono molti i significati che ad un prima lettura potrebbero sfuggire, ma che persistono nella profondità del libro. Come ha affermato Pennac - nella postfazione che accompagna il romanzo - «un libro di questo calibro può essere letto più volte, nel corso degli anni, traendone impressioni e suggestioni diverse. A diciott'anni prevale la griglia della passione amorosa, a quaranta quella della critica sociale, a sessanta quella del pessimismo della tragedia che tutto annulla.»




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giovedì 8 dicembre 2016

Vita e destino di Vasilij Grossman

Vasilij Grossman conosceva la guerra. L'aveva vista da vicino, quando - negli anni che andarono dall'agosto del 1941 fino al 1945 - era stato corrispondente dal fronte del giornale Stella Rossa.
A seguito dell'Armata Sovietica, aveva raccontato il conflitto nei taccuini neri che portava sempre con sé e su cui annotava le sue impressioni.
Finita la guerra iniziò a scrivere il romanzo per cui impiegò quasi dieci anni.
E quando conclusa la stesura - nell'ottobre del 1960 - inviò il romanzo ad una rivista, non immaginava forse cosa sarebbe successo dopo.
Il caporedattore della rivista avvisò i funzionari politici per sottoporre il romanzo alla loro visione. Nel febbraio del 1961, due agenti del KGB visitarono l'abitazione dello scrittore e sequestrarono il manoscritto, le carte carbone, le minute, i nastri della macchina da scrivere. Grossman protestò - inviando anche una lettera al segretario del Partito Nikita Krusciov -, ma dopo diversi mesi di silenzi gli fu comunicato che il suo libro non sarebbe stato pubblicato né restituito.
Ma, nonostante ciò, una copia del libro era stata salvata dallo scrittore. Grossman l'aveva consegnata all'amico Limpkin per un avere un suo giudizio. E fu proprio Limpkin a riuscire a far arrivare in occidente il romanzo di Grossman fino a Losanna, dove venne definitivamente pubblicato nel 1980 da una casa editrice svizzera. Ormai Grossman era morto da diversi anni, da quel giorno del settembre 1964 in cui la sua vita si spense a seguito di una malattia da cui non aveva avuto né cure né aiuto per sconfiggerla, e con l'animo rammaricato di non sapere se il suo romanzo sarebbe mai stato pubblicato.
Bisognò aspettare ancora qualche altro anno, per la precisione il 1990, per vedere pubblicata la copia integrale del romanzo di Grossman - che lui stesso aveva dato all'amico Viaceslav Ivanovic Loboda - basata sulle correzioni autografe che lo stesso autore aveva apposto. Ed è dal testo integrale in russo del romanzo che la casa editrice Adelphi dal 2008 ha curato la traduzione dell'edizione da essa pubblicata.
Ma cosa narrava questo romanzo per condannare Grossman - fino a quel momento considerato un apprezzato scrittore e reporter di guerra, e dopo di allora giudicato un autore antisovietico - ad un simile destino?
Ambientato fra il luglio del 1942 ed il febbraio del 1943, e diviso in tre parti, il romanzo narra l'assedio e la battaglia di Stalingrado, le storie delle persone coinvolte nel dramma di quei mesi, la ferocia dei lager nazisti, l'orrore della guerra che entra nella quotidianità della vita, la sopravvivenza sotto le macerie e la distruzione, i rapporti familiari, i destini che s’incrociano, i figli che partono per la guerra e l'attesa delle madri e la dolorosa scoperta del sapere che i figli non torneranno più vivi, il dolore della perdita e della morte, la voglia di non inchinarsi al potere, ai suoi compromessi, ai sospetti ed alle accuse di tradimenti, di rimanere fedeli ai propri ideali, il desiderio di vivere nonostante le tenebre dei tempi, nonostante l'odio ed i regimi. Sono scene che costringono a posare il libro ed interrompere la lettura tanto si rimane colpiti dentro da quello che lo scrittore scrive o dalle parole che lui usa per descrivere la tragedia in atto. E dalle pagine emerge anche la denuncia di due totalitarismi che, per quanto si professassero nemici ed in guerra l'un con l'altro, erano identici nel principio e nell'essenza dello Stato partito, come Grossman lascia trasparire da un dialogo in cui Liss - un comandante responsabile del lager nazista - disse al prigioniero Mostovksoj: «Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? Il mondo non è forse pura volontà anche per voi? [...] Non c’è nessun abisso tra di noi! Se lo sono inventato. Siamo due ipostasi della stessa sostanza: uno “Stato partito”.»
Vita e destino è considerato un romanzo il cui respiro epico è stato spesso paragonato a Guerra e Pace di Tolstoj, ma con una scrittura secca, perfetta e completa nel suo essere concisa e spesso avvolta da un'infinita poesia. Un romanzo sull'individuo ed il proprio destino, sul totalitarismo e sulla guerra. Un romanzo la cui lettura può forse risultare difficile, ma rimane senz'altro indispensabile. Un romanzo che - nel narrare gli orrori della guerra e la ferocia della dittatura - lascia tuttavia trapelare dalle sue pagine uno struggente inno alla vita. E vengono in mente le parole con cui Anna Semenova - la madre ebrea di Strum - decide di terminare la lettera che - di fronte all'evenienza della sua morte per mano dei nazisti - scrive al figlio: «Viktor, mio caro... È l'ultima riga dell'ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre...»




sabato 19 novembre 2016

I trilobiti di Breece D’J Pancake

Aveva ventisei anni Breece D'J Pancake quando morì per un colpo di pistola - sparato da lui stesso - in un giorno di aprile del 1979. Il suo vero nome era Breece Dexter Pancake, ma quando nel 1976 il mensile americano Atlantic Monthly pubblicò il racconto Trilobites, qualcuno sbagliò a scrivere il suo nome e lui - come racconta Giacomo Papi nell'introduzione all'edizione italiana edita da Isbn Edizioni - decise di lasciarlo lo stesso scritto a tal modo. Perchè Pancake scriveva racconti. Nato a South Charleston, nel West Virginia, i suoi racconti erano spesso ambientati proprio in queste terre. Con una scrittura scarna, asciutta, minima ed essenziale, ma capace di produrre immagini e sensazioni vivide, in questi racconti emerge la natura spesso aspra ed isolata, gli animali viventi ed i fossili del passato, la desolazione e lo splendore dei paesaggi, il tempo atteso e quello che sembra essersi fermato per sempre, il desiderio di fuggire anche se alla fine si rimane allo stesso posto, scene di vite perdenti e fragili, quelle stesse vite dai cui spesso rimane impressa addosso al lettore un vago senso di solitudine.
Una solitudine che permea i pensieri ed i gesti dei protagonisti dei racconti, che affiora nelle descrizioni delle terre immense e desolate, che pervade le pagine del libro. Soltanto qualche anno dopo la sua morte, per la precisione nel 1983, i suoi racconti vennero pubblicati in una raccolta postuma. Pubblicati per la prima volta in Italia dalla casa editrice Isbn nel 2005 - e successivamente in edizione economica nel 2010 -, i dodici racconti sono stati nel 2016 ristampati dalla Minimum Fax - casa editrice sempre attenta ad offrire ai lettori italiani opere interessanti - con la nuova traduzione di Cristiana Mennella. Un'occasione per leggere i racconti di un'autore che, osannato oltreoceano - citato da Tom Waits come suo autore preferito, ed il cui debutto è stato paragonato per talento da Joyce Carol Oates ad Hemingway -, nel corso degli anni è diventato uno scrittore di culto.


mercoledì 2 novembre 2016

La notte in cui uccisero un poeta. In memoria di Pier Paolo Pasolini



Che fossero state più persone ad uccidere Pier Paolo Pasolini, in quella notte tra il primo ed il due novembre del 1975, all'Idroscalo di Ostia, lo si seppe sin da subito.
Fu uno degli abitanti di quelle misere baracche a confidare a Furio Colombo - all'epoca collaboratore per La Stampa - come quella sera vi fossero più persone a colpire a morte Pasolini.
Fu Oriana Fallaci a scriverlo nella sua contro-inchiesta pubblicata sulle pagine dell'Europeo dopo aver raccolto prima alcune testimonianze riportanti la presenza di due motociclisti - che avrebbero partecipato all'aggressione colpendo il poeta anche con una catena - e poi il racconto rilasciato da un ragazzo di vita ad un collaboratore della rivista sui drammatici eventi di quella notte.
Fu la perizia del medico legale nominato dalla parte civile ad individuare la presenza di più assassini nelle ferite sul corpo di Pasolini, a circostanziare come le stesse fossero state impartite dalle diverse persone che avevano partecipato al massacro e non potessero essere imputabili ad una colluttazione fra due singoli individui, come se le stesse ferite testimoniassero le modalità in cui il massacro fu perpetrato e che si concluse quando gli aggressori passarono con una macchina sopra il corpo del poeta che giaceva inerme sullo sterrato dell’Idroscalo, causandogli la frattura delle costole e dello sterno, lacerandogli il fegato e facendogli scoppiare il cuore.
Furono i fratelli Braciola a confidare ad un poliziotto in incognito la loro partecipazione a quel massacro, pur poi ritrattando nei giorni successivi ciò che avevano affermato con la motivazione che avevano detto di aver ucciso Pasolini soltanto per farsi grandi agli occhi del loro interlocutore.
Fu la stessa macchina Alfa GT 2000 di Pasolini a testimoniare in maniera impeccabile che non poteva essere stata essa a passare sopra il corpo del poeta, non avendo alcun evidente danno sulla coppa dell'olio e sulle parti della vettura che si diceva avessero sormontato il suo corpo. 
Fu ancora una volta l'Alfa GT 2000 a rendere chiara la presenza di almeno un'altra persona, ostentando quella macchia di sangue sulla tettoia dal lato del passeggero, come se - oltre all'autista - qualcun altro fosse salito sulla vettura appoggiando la mano sulla carrozzeria per aprire la portiera.
Fu la presenza di un plantare e di un maglione dentro la vettura di Pasolini - non appartenente in alcun modo al poeta e nemmeno presente nella stessa vettura nei giorni precedenti all'omicidio - ad insinuare il dubbio che quella notte sul luogo non vi fosse soltanto Pelosi.
Fu lo stesso corpo di Pelosi a confermare che non poteva essere stato lui a ferire in quel modo brutale Pasolini. Tutte le persone si chiedevano come potesse quel corpo mingherlino aver martoriato il corpo atletico di Pasolini con tale furia, come potesse quel corpo sostenere un'aggressione ed una colluttazione come da lui descritta senza riportare alcuna contusione, alcuna ecchimosi, alcun livido, alcuna traccia di fango o sangue del poeta addosso ai propri vestiti ed alla propria pelle
Fu il presidente Moro - che presiedeva il processo contro Pelosi apertosi il 2 febbraio 1976 presso il Tribunale per i minorenni di Roma - a pronunciare, il 26 aprile 1976, la sentenza dichiarando Pelosi colpevole di furto aggravato, atti osceni ed omicidio volontario in concorso con ignoti, precisando come dagli atti emergesse in modo imponente ed univoco la prova che quella notte all'Idroscalo Pelosi non fosse stato solo e fossero state più persone - restate sconosciute - ad uccidere Pasolini. 
Ma nonostante tutti questi fatti portassero alla conclusione che Pasolini era stato ucciso da un gruppo non identificato, i successivi dibattimenti, nel secondo e nel terzo grado di processo, emisero la sentenza che fosse stato solo Pelosi ad uccidere il poeta in quella notte all'Idroscalo, sostenendo ed avallando la tesi che si fosse trattato di un'omicidio a sfondo sessuale.
E quest’ultima fu la versione ufficiale con cui si cercò di archiviare nella memoria della nazione il massacro perpetrato nei confronti di Pasolini.
Ma tale tesi non ritrovava riscontro nella realtà. Troppi indizi ed evidenze la screditavano. 
Dubbi, menzogne, omissioni, segreti, errori degli inquirenti giunti sul luogo del delitto e durante la conservazione dei reperti e della vettura di Pasolini, indizi e testimonianze che furono raccolti e raccontati nel 1995 da Marco Tullio Giordana nel suo film Pasolini, un delitto italiano.
Negli anni successivi, a partire dal 2005, lo stesso Pelosi ritrattò più volte quella prima versione, raccontando come non fosse stato solo in quella notte, pur non specificando mai fino in fondo cosa avvenne e chi furono le persone presenti oltre a lui all'Idroscalo.
Nel luglio del 2005, il regista Martone girò un documentario in cui Citti raccontava la testimonianza di un pescatore - da lui raccolta - che non soltanto affermava la presenza di più persone sul luogo del delitto, ma anche che quella sera all'Idroscalo vi fossero due automobili e non solo quella di Pasolini. Citti descriveva le scene che, pochi giorni dopo la morte del poeta, lui stesso aveva ripreso quando si era recato all'Idroscalo, munito di una macchina da presa, filmando una ricostruzione dell’accaduto e mostrando come Pasolini fosse forse stato investito dalla seconda macchina, in una dinamica che metteva in dubbio la versione ufficiale fino a quel momento diffusa ed accreditata.
Ad avallare la tesi che quella notte fosse stata un'altra Alfa GT 2000 - simile a quella del poeta - a passare sopra il corpo di Pasolini, furono i racconti di alcune persone secondo cui la macchina danneggiata - sotto la cui scocca risultava fossero presenti residui di capelli, sangue e fango -, nei giorni successivi all'omicidio di Pasolini, fu fatta visionare ad alcuni carrozzieri di Roma per far aggiustare i danni subiti dalla stessa nel sormontare il corpo del poeta.
Ma nonostante ciò, le riaperture del caso non hanno ancora mai portato ad una definitiva verità su chi fu davvero ad uccidere Pasolini.
E proprio per avere un nuovo utile contributo nel cercare di capire cosa avvenne quella notte, è doveroso approfondire la lettura dell'interessante saggio di Simona Zecchi Pasolini, massacro di un poeta - edito nel 2015 da Ponte delle Grazie. L'autrice ha condotto un'inchiesta rigorosa cercando di individuare nuovi indizi, utilizzando documenti inediti, testimonianze e fonti trascurate nei dibattimenti, analizzando le fotografie scattate all'epoca del rinvenimento del corpo martoriato di Pasolini - che evidenziano i colpi a lui inferti - per anni rimaste inedite. Nella rigorosa ricerca condotta lungo gli ultimi cinque anni, l'autrice non soltanto smonta la tesi dell'omicidio sessuale, ma lascia intravedere sprazzi di una verità che lentamente affiora dalle tenebre di quella notte, facendo affiorare nuovi elementi che potrebbero aiutare ad individuare quali furono i moventi e chi partecipò a quel «massacro tribale» come definito dalla stessa autrice, ed il cui significato «trivalente» è stato spiegato durante un'intervista da lei rilasciata a Giuseppe Mellozzi per Temporeale.info: «tribale per la violenza e la precisione inaudite perpetrate sul corpo del letterato; tribale per la quantità delle persone coinvolte e accorse quella notte (almeno tredici ma anche di più); tribale per la forza e la ferocia con cui questo massacro ha continuato a perpetrarsi influenzando in gran parte la percezione della sua opera anche a volte dei più appassionati pasoliniani.»
Il giorno dei funerali di Pasolini, Moravia, durante la sua commossa e solenne orazione funebre, ricordò come l'Italia, con la morte di Pasolini, avesse perso un simile, un poeta, un romanziere, un uomo prezioso, e descriveva un'immagine che lo perseguitava, l'immagine di «Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo paese come Pasolini stesso avrebbe voluto.»
Come disse Moravia nell'orazione di «poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.»
Se l'Italia non è riuscita negli anni a difendere e preservare il suo poeta, sarebbe però auspicabile e ormai doveroso che questa nazione almeno finalmente renda giustizia alla sua memoria.


giovedì 20 ottobre 2016

La Camera Chiara di Roland Barthes

 

Era l'ultimo anno d'università. Mi aggiravo fra gli scaffali di una libreria - nel settore Fotografia - alla ricerca di qualche libro che potesse essere di aiuto per la tesi che stavo preparando. 
Mi sarei laureato alla facoltà di Scienze Politiche con una tesi in Storia Contemporanea. L'argomento che avevo scelto di trattare era la produzione fotografica dell'Istituto Luce durante il ventennio fascista. Volevo cercare di analizzare e narrare come la fotografia avesse rappresentato la realtà dell'epoca e quale fosse stato l'uso politico che il regime fascista aveva effettuato di quelle fotografie. 
Una volta a settimana mi recavo presso l'Istituto Luce per visionare il materiale fotografico presente nei loro archivi. Avevo preso anche l'abitudine di recarmi presso l'Archivio Centrale di Stato alla ricerca di quelle disposizioni emesse nel corso del ventennio sulla fotografia per cercare di analizzare le eventuali finalità politiche che il regime fascista - attraverso i ministeri preposti che si erano succedui negli anni fino alla istituzione del Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) - assegnava alla fotografia.
E fu così che - mentre lo sguardo scorreva sui volumi presenti sullo scaffale - trovai La camera chiara di Barthes. 
Avevo letto su altri libri alcune citazioni di questo saggio che mi avevano spinto ad annotarlo fra i titoli da leggere. Sul tram di ritorno a casa aprii le pagine ed iniziai a leggere:
Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l'Imperatore». 
Era la primavera del 1979 quando Roland Barthes iniziò a scrivere queste parole.
Una serie di note, disgressioni, riflessioni - come recita nella quarta di copertina del libro - su cosa fosse la fotografia.
Colto da un desiderio «ontologico» - come scrisse lui stesso - Barthes voleva a ogni costo sapere cos'era la fotografia «in sé», attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini.
Dopo aver scoperto che ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo solo una volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente Barthes osservava come una fotografia possa essere l'oggetto di tre pratiche - fare, subire, guardare - a cui corrispondono tre soggetti presenti nella fotografia: l'Operator, che è il fotografo; lo Spectator che è la persona che osserva la fotografia; e lo Spectrum ossia chi è  fotografato. 
Ma il momento della lettura che suscitò in me maggior interesse fu quando Barthes iniziò a riflettere e discorrere sul rapporto che si instaura fra la fotografia e l'osservatore. 
Nelle fotografie spesso compaiono dettagli - di persone o luoghi od altri infiniti dettagli - che il fotografo in quel momento non ha notato o - qualora notati - non ha potuto fare a meno di escludere, e che emergono nella loro presenza a connettere e indicare altri significati nell'immagine stessa.
Perché alcune fotografie attraevano Barthes provocando in lui gioie sottili ed altre invece lo lasciavano talmente indifferente fino a fargli provare alla lunga una sorta di avversione od irritazione? 
Cosa rende una fotografia attraente e cosa la rende indifferente o peggio ancora irritante?
Barthes, analizzando alcune fotografie, arrivò a definire come in ogni fotografia coesistano due elementi: lo studium, che consiste nell'interessamento culturale o personale, proveniente dall'osservatore e rivolto verso la fotografia, ed il punctum, una sorta di ferita provocata da una freccia che parte dalla fotografia e raggiunge l'osservatore a carpire la sua attenzione. È la presenza del punctum, di quel particolare che mi attrae, a dare un nuovo senso ed un nuovo valore alla fotografia che osservo.
Dopo aver riflettuto sull'indefinita essenza del punctum, mi colpirono ancor più le riflessioni di Barthes quando iniziò a riordinare alcune fotografie della madre morta, risalendo a poco a poco il tempo assieme a lei, cercando la verità del volto che avevo amato fin quando finalmente non la scoprì in una vecchia fotografia cartonata, con gli angoli smangiucchiati, d'un color seppia smorto in cui la madre era ritratta da bambina.
Proprio osservando quella fotografia Barthes ritrovò la propria madre.
Sono pagine intense di riflessioni sulla madre, sulla morte ed il dolore, sulla malattia e sulla cura verso la persona cara, sulla fotografia e la sua essenza, sul lutto che non cancella il dolore, sul Tempo che elimina l'emozione della perdita (non piango), e basta.
E forse l'essenza della fotografia, secondo Barthes, è che essa dice ciò che è stato, ratifica ciò che essa ha ritratto. E così ecco che dalla fotografia parte allora un nuovo punctum che è il Tempo. 
Queste furono le note e le riflessioni che all'epoca più mi colpirono, insegnandomi un nuovo modo di pormi nei confronti della fotografia e nel suo metodo di studio. 
Negli anni avrei letto altre volte quelle note e riflessioni di Barhes, e spesso avrei trovato nuovi significati magari sfuggiti a quella prima lettura, ma sarebbe sempre rimasta ferma la convinzione che La camera chiara rimanga un saggio caposaldo, un testo fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla fotografia ed entrare nel suo misterioso ed affascinante mondo.