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domenica 30 giugno 2019

La polisemia delle atrocità. Frammento #5




Esistono momenti nella vita in cui sorge imperativo il bisogno di ribellarsi e disobbedire ad un ordine ricevuto che la nostra coscienza ritiene profondamente ingiusto e contrario a qualsiasi principio umanitario. 
Perché anche il solo obbedire ad un ordine che viola l'umanità ci rende colpevoli e responsabili del crimine stesso.
Il nostro non disobbedire all'ordine ricevuto ci rende a tal punto complici di chi quell'ordine lo ha impartito. 
Soltanto la disobbedienza può assolvere un'anima altrimenti condannata dalla sua ignavia.



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giovedì 8 novembre 2018

La polisemia delle atrocità. Frammento #4


Nel rifiuto di voler pubblicare fotografie ritraenti atrocità di guerre lontane dalla propria terra, quanto c'è in esso il decoro per una vita altrui e quanto invece soltanto la strenua difesa della propria serenità altrimenti da esse scalfita?
Si vuol vietare la diffusione di un'immagine violenta perché essa viola la dignità della persona ritratta, o soltanto perché essa infrange la barriera di cristallo dentro cui vogliamo difendere la serenità della nostra vita al sicuro dai cannoni?
Ci ferisce ciò che quella immagine rappresenta, o a volte porgiamo difese ad essa soltanto perché essa non turbi la nostra incolume quiete?
È vera pietà per i morti la nostra, o soltanto opportuna difesa per chi resta vivo e lontano da quelle atrocità?
Come se il non voler vedere, il non voler mostrare simili morti potesse rendere il dolore delle guerre lontano dalle proprie vite.
Come se il voler negare simili atrocità volesse affermare l'esistenza di un mondo migliore anche quando esso non esiste affatto.
Ma allorquando si decida di negare la visione di simili atrocità, per quanto poi si voglia gridare la propria assoluzione di fronte ai conflitti in atto, la nostra indifferenza farà sì che saremo sempre anche noi coinvolti, e se non come efferati perpetratori, lo saremo come occulti censori o come silenti spettatori.





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La polisemia delle atrocità. Frammento #2





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lunedì 3 settembre 2018

La memoria delle atrocità

«Il XX secolo, l’epoca della politica di massa e della cultura di massa ha preferito affidarsi più all’immagine che alla parola stampata. Questa tendenza a servirsi dell’immagine è sempre esistita in mezzo ad una popolazione in gran parte analfabeta, ma oggi, in seguito al perfezionamento della fotografia, del cinema e del rituale politico, essa è diventata una considerevole fo rza politica», ha scritto Mosse (1). Attraverso le proprie produzioni fotografiche, le nazioni, con le connesse società e rispettive forme di cultura, si sono confessate, rivelate, consegnate alla storia. Se è vero, come ha sostenuto Sontag (2), che fotografare significhi appropriarsi della cosa che si intende fotografare, stabilendo così con il mondo una relazione particolare, che possa alla fine dare una sensazione di conoscenza e perciò di potere, allora le fotografie ci riconsegnano senz’altro l’interpretazione ed il tentativo di appropriazione che l’uomo, nel corso dei secoli, ha messo in atto nei confronti della realtà, mentre vorticosa lo coinvolgeva. La fotografia, a tal punto, è sempre una testimonianza storica. Ma tale testimonianza, spesso, non va intesa nel senso stretto di una descrizione oggettiva di una realtà, quanto semmai in un significato che comprenda l’attestazione di un avvenimento e l’intenzionalità di divulgare una particolare verità all’interno della società. La fotografia, infatti, non è «il trasparente resoconto di un evento», ma è sempre «un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere» (3).
Le fotografie sono frammenti di realtà selezionati dal fotografo, che «sceglie il momento e l’oggetto» della rappresentazione; spesso sono condizionati dalla stessa macchina fotografica, che «detta i limiti dell’inquadratura». Il prodotto stesso di «questa sinergia non può essere una riproduzione oggettiva della realtà» (4).
Pertanto, quando analizziamo una fotografia, non dobbiamo limitarci a raccontare soltanto ciò che è stato rappresentato, ma dobbiamo, nel possibile, svelare anche ciò che è stato volontariamente tralasciato, cercando inoltre di indagare le motivazioni per cui simili scelte di rappresentazione ed esclusione siano state effettuate, interessandoci, come sosteneva Bloch, di «quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita» (5).
Soltanto analizzando la fotografia, riconoscendo in essa ciò che è stato volontariamente escluso, si può costruire un quadro completo della realtà in cui simile rappresentazione è stata completata.
Un’analisi che acquista una notevole importanza nella ricerca dell’intenzionalità che ha generato le fotografie attestanti scene di atrocità durante le guerre. L’atrocità può essere stata fotografata da un professionista per denunciare o testimoniare un episodio storico; può essere stata fotografata da un soldato che ha partecipato all’eccidio, per poi tenerla come un macabro ricordo; può essere stata commissionata dalla propaganda di un governo per orientare l’opinione pubblica; può essere stata fotografata da un civile come lascito alla memoria. Una volta compresa la motivazione dello scatto, è altrettanto importante analizzare l’uso che la società o la politica compie poi delle immagini prodotte sui terreni dei conflitti. La morte, nel momento che esista una conflittualità politica in essere, non si erge da sola come condanna della guerra in se, ma viene spesso utilizzata per effettuare proseliti alla propria fazione (6). Un’ immagine di guerra, così, può essere utilizzata per finalità fra loro del tutto contrapposte, e che ergono a seconda da quale visuale lo spettatore voglia riflettere sull’immagine, o da quale visuale il fotografo voglia stimolare la percezione dell’osservatore. Altre volte, questa dicotomia di messaggi presenti nella fotografia, può derivare da fattori esterni all’intimo rapporto che s’instaura fra l’osservatore e la fotografia, e che vengono appunto posti per influenzare tale comunicazione.
La committenza, il taglio, la didascalia, le modalità di diffusione o di pubblicazione, sono tutti fattori che possono stravolgere ed influenzare la lettura ed il significato di un’eventuale immagine, ed incidere sulla sua fruizione nelle persone. La fotografia, spesso, è nulla più che una vuota immagine se non la compariamo appunto con la sua produzione e con la sua funzione storica, sia sociale sia politica. Se l’immagine ci rivela la personalità e la cultura del fotografo che ha realizzato una simile opera, è senz’altro la didascalia a raccontarci, così, l’intenzionalità politica che ha determinato la divulgazione della stessa immagine all’interno della società. Nel momento in cui ogni immagine può destare sentimenti diversi negli osservatori, la didascalia rappresenta senz’altro il tentativo di indirizzare tali sentimenti spontanei in determinati significati politici, spesso stabiliti in precedenza dal divulgatore dell’immagine.
In tale modo, il testo dirigerebbe «il lettore tra i significati dell’immagine», facendone «evitare alcuni e recepire altri» (7), influenzando così il pensiero critico dell’osservatore.
Un tentativo che assume un’estrema e sensibile importanza, soprattutto nel momento in cui una nazione è coinvolta nel sacrificio e nel dramma di una guerra. Le fotografie che riescono a passare il visto delle censure, vengono spesso pubblicate con didascalie che filtrano il senso reale dell’immagine, per propagandare il messaggio della parte in conflitto.
Le fotografie di morte, così, sono state diffuse per illustrare a volte tesi già precostituite, per giustificare il proprio intento di guerra e contemporaneamente legittimare le proprie azioni belliche, per demonizzare il nemico e fomentare l’odio verso di lui, per ostentare la propria potenza repressiva e l’ordine costituito, per negare oppure ostentare la violenza della guerra, a seconda se i morti appartenessero al proprio esercito od al nemico. La fotografia è stata utilizzata per celebrare l’eroismo della guerra o per urlare le sue atrocità conto l’umanità.
«Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose terribili» (8).
L’affermazione di Sontag sulle reazioni suscitate nelle persone dalle fotografie delle atrocità, in tal senso, illustra l’effimera potenza della fotografia, capace di veicolare i sentimenti delle persone a sostegno o contro determinati conflitti, ma ci deve indurre anche a riflettere sulla tremenda impotenza delle immagini, che si rivela pienamente quando le atrocità della guerra vengono accolte dalle persone come un evento inevitabile. Le immagini di morte possono provocare nello spettatore un sentimento di abitudine, di rigetto, come se «la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l’annulla» (9).
La quotidiana presenza di immagini violente nella società odierna fa insorgere il rischio che la capacità critica dell’osservatore si perda nella rassegnazione di accettare la guerra, come una inevitabile presenza nell’esistenza umana. Ma sarebbe un grave errore assimilare le fotografie della morte in guerra ad un genere iconografico, astraendo dalle condizioni politiche e storiche in cui le specifiche immagini sono state prodotte e diffuse. Per una corretta analisi delle immagini stesse, non si deve incorrere nell’errore di effettuare soltanto uno studio stilistico delle fotografie, soffermandosi principalmente sulla composizione della scena ripresa, ma diviene necessario entrare nel dettaglio della fotografia, scavare nella sua natura, concentrarsi nei particolari, cercare di comprendere quale sia stata l’intenzionalità che ha maturato la scelta di produrre una simile immagine, e soprattutto appurare se l’immagine abbia poi risposto fedelmente alla stessa intenzionalità, o se invece, come spesso avviene, la fotografia non abbia lasciato trasparire dettagli ed elementi che ci portino ad una più profonda conoscenza dell’evento rappresentato.
Le immagini di un conflitto, come ha notato De Luna, sono «momenti di verità», rappresentano «tessere di un mosaico che lo storico deve completare con tutte le informazioni e le conoscenze che gli derivano dal complesso delle sue ricerche e delle sue fonti» (10).
A tal punto, nella miriade di immagini di violenza che la storia ha prodotto, il «contesto rimane quindi indispensabile per decifrare le singole specificità che la storia lascia emergere nella nebulosa di quella che viene chiamata barbarie» (11). Perché è proprio il contesto a rappresentare un «elemento cruciale», non soltanto «per lo scatenamento della violenza», ma anche «per prepararla e renderla accettabile e giustificabile» (12).
È lo stesso clima sociale a far sì che emergano determinati atti di violenza. Sono le «concezioni politiche, le identità ideologiche, le capacità tecnologiche che indirizzano a questa o a quella forma di violenza, che diventa a sua volta indicativa e caratteristica del regime che le mette in pratica» (13). È il contesto, come ha scritto Flores, che fornisce al potere le condizioni adeguate «per legittimare l’uso della violenza, per mobilitare le masse a eseguirla o appoggiarla, per discolparsi in anticipo attraverso propaganda e menzogne che il contesto sembra rendere accettabili» (14).
Ma spesso, il significato di una fotografia, il suo senso, può derivare, oltre che dal mutare del contesto storico, anche a causa dell’avanzare del tempo, che può far rileggere le immagini prodotte negli anni precedenti in un’ottica totalmente opposta a quella iniziale.
Molte fotografie delle guerre del Novecento possono ancora oggi portare il loro drammatico messaggio, soltanto se vi è una nazione capace di comprenderle. D’altronde, le fotografie, se a volte non sussiste un ricordo che le possa animare, divengono vuoti trascrittori, come ha raccontato Sartre, sintetizzando l’assenza di una qualsiasi comunicazione fra la fotografia ed una persona, a causa di un passato che non forniva più ricordi, nella geniale frase «questi afrodisiaci non hanno più alcun effetto sulla mia memoria» (15).
L’assenza di una memoria storica può causare la banalizzazione delle immagini attestanti le atrocità della guerra. La quotidiana fruizione di immagini violente, inoltre, tende ad alimentare la triste assuefazione delle popolazioni alla violenza. La circolazione di fotografie attestanti le violenze di guerra si amplia, il senso di denuncia e critica si assottiglia, la memoria svanisce nell’oblio. A tal punto, le fotografie non sono più testimonianze che indignano le coscienze, ma diventano semplici immagini che, accolte per un attimo dalle persone, poi scivolano via, per essere sostituite dalle immagini successive, in un mosaico di continui orrori, smettendo di «essere una testimonianza per diventare parte della scenografia che ci circonda. Ognuno può scegliere comodamente il frammento di orrore con cui decorare di commozione la propria vita» (16), ognuno può scegliere la propria icona per denunciare la guerra o giustificarla, oppure semplicemente può decidere di rimanere indifferente. Nel momento in cui la guerra viene accettata nella sua ineluttabilità, le atrocità vengono assorbite dalle persone, per essere metabolizzate in fotografie, che nulla possono per interrompere la tragedia in atto.

Note

1. Mosse G.L., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, p. 13.
2. Vedi Sontag S., Sulla fotografia, p. 4.
3. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 40.
4. Vedi Schaber I., Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, pp. 123-124.
5. «Oggi perciò, persino nelle testimonianze più decisamente volontarie, ciò che il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente quel che si lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita». Vedi Bloch M., Apologia della storia, p. 69.
6. «Per i militanti, l’identità è tutto. E ogni fotografia attende d’essere spiegata o falsificata da una didascalia. Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre nei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe che in quelle croate. Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte». Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 9.
7. Proprio discorrendo relativamente al testo che accompagna la fotografia stampata, Barthes ha rivelato come esso costituisca «un messaggio parassita, destinato a connotare l’immagine, cioè a “insufflarle” uno o più significati secondi». E se spesso il testo apposto accanto alla fotografia «non fa che amplificare un insieme di connotazioni già incluse nella fotografia» altre volte, il testo diviene di primaria importanza nello studio dell’uso della fotografia, in quanto esso «produce (inventa) un significato interamente nuovo e che viene in qualche modo proiettato retroattivamente nell’immagine, al punto da sembrare denotato». Considerando che ogni immagine è polisemica, Barthes sosteneva che essa «implica, al di sotto dei suoi significanti» una «catena fluttuante» di significati, che «il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare». A questo punto, «in ogni società si sviluppano tecniche diverse destinate a fissare la catena fluttuante dei significati, in modo da combattere il terrore dei segni incerti: il messaggio linguistico è una di queste tecniche». Vedi Barthes R.,L’ovvio e l’ottuso, pp. 15-17 e pp. 28-30.
8. Vedi Sontag S., Davanti al dolore degli altri, p. 11.
9. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p.26.
10. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. XXVI.
11. Vedi De Luna G., Il corpo del nemico ucciso, p. 63.
12. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
13. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 55.
14. Vedi Flores M., Tutta la violenza di un secolo, p. 69.
15. Vedi Sartre J.P., La nausea.
16. Vedi Pérez-Reverte A., Il pittore di battaglie, p. 17.

mercoledì 7 marzo 2018

La polisemia delle atrocità. Frammento #1



LA POLISEMIA DELLE ATROCITÀ


MEMORIE DI UN FOTOGRAFO IN GUERRA



Una grigia città di frontiera. In una terra straniera si affrontano due eserciti contrapposti. Un ammasso di macerie a delimitare la linea di confine. Partito con una macchina fotografica - ereditata dopo la morte del padre - un uomo si trova arruolato a combattere una guerra che non ha mai sentito sua. Assegnato alle squadre fotografiche - con il compito di narrare e documentare la guerra secondo l'ottica ufficiale - l'uomo trascorre i suoi giorni ad aggirarsi nella città, nell'attesa che giunga il nemico ed inizi la battaglia. E la guerra giorno dopo giorno si insidia nelle vite di civili e soldati fino ad irrompere in tutta la sua tragica furia. Un romanzo sui destini delle persone durante i conflitti. Una riflessione sulle atrocità che la guerra genera e sui rapporti dell'uomo - e della fotografia - verso di esse.

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sabato 17 febbraio 2018

La polisemia delle atrocità. Memorie di un fotografo in guerra



LA POLISEMIA DELLE ATROCITÀ


MEMORIE DI UN FOTOGRAFO IN GUERRA



Una grigia città di frontiera. In una terra straniera si affrontano due eserciti contrapposti. Un ammasso di macerie a delimitare la linea di confine. Partito con una macchina fotografica - ereditata dopo la morte del padre - un uomo si trova arruolato a combattere una guerra che non ha mai sentito sua. Assegnato alle squadre fotografiche - con il compito di narrare e documentare la guerra secondo l'ottica ufficiale - l'uomo trascorre i suoi giorni ad aggirarsi nella città, nell'attesa che giunga il nemico ed inizi la battaglia. E la guerra giorno dopo giorno si insidia nelle vite di civili e soldati fino ad irrompere in tutta la sua tragica furia. Un romanzo sui destini delle persone durante i conflitti. Una riflessione sulle atrocità che la guerra genera e sui rapporti dell'uomo - e della fotografia - verso di esse.

Incipit:

Quando mio padre morì, ereditai un cappotto scuro e la sua vecchia macchina fotografica.
E quello fu tutto ciò che portai con me, il giorno in cui partii per la guerra.



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giovedì 8 giugno 2017

L'omicidio Matteotti nelle fotografie di Porry-Pastorel


Gli uomini trasportavano la cassa di legno dentro cui giaceva il corpo nudo e martoriato di Giacomo Matteotti. 
Era il 16 agosto 1924. 
Il corpo era stato ritrovato nella macchia della Quartarella, sulla via Flaminia, «rannicchiato in una fossa talmente piccola che per costringervelo, era stato brutalmente compresso tanto da provocargli la frattura di alcune costole.» (1)
Erano trascorsi due mesi da quel pomeriggio del 10 giugno in cui Matteotti era stato rapito da Amerigo Dumini, Giuseppe Viola, Albino Volpi, Augusto Malacria ed Amleto Polveromo: cinque sicari fascisti appartenenti alla Ceka, un'organizzazione di polizia segreta allestita da Mussolini e guidata da Cesare Rossi, all'epoca Capo dell'Ufficio Stampa di Mussolini, e Giovanni Marinelli, un segretario amministrativo del PNF.
Qualche settimana prima del rapimento, durante la seduta parlamentare del 30 maggio, Matteotti aveva pronunciato un coraggioso intervento con cui aveva denunciato le intimidazioni, le violenze ed i diffusi brogli elettorali commessi dal PNF per vincere le elezioni avvenute nel mese di aprile; ed il giorno successivo al rapimento, egli avrebbe pronunciato alla Camera un nuovo discorso con cui intendeva denunciare la dilagante corruzione che coinvolgeva alcuni esponenti del fascismo e lo scenario di affarismo e tangenti che aveva portato alla stipula del contratto tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil.
Era stato il fotografo Adolfo Porry-Pastorel a riprendere le drammatiche scene del ritrovamento del cadavere di Matteotti.
Titolare dell'agenzia fotografica Vedo (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque), da lui fondata nel 1908, Porry-Pastorel era un fotografo di cronaca che, collaborando con i quotidiani La Vita ed Il Giornale d'Italia, aveva testimoniato molti avvenimenti politici del periodo, fra cui il ritorno di Orlando e Sonnino dalla Conferenza di Pace di Parigi; gli squadristi armati di bastoni posare sorridenti in foto ricordo accanto al deputato comunista Francesco Misiano, dopo che lo stesso era stato malmenato e costretto ad uscire dal Parlamento per poi essere deriso e trascinato con un cartello appeso al collo in un corteo che aveva percorso tutta via del Corso.
Nei giorni della marcia su Roma, Porry-Pastorel aveva fotografato le squadre fasciste attraversare la città, posare fiere di fronte alle sedi distrutte dell'opposizione, infiammare i giornali e le riviste dei sindacati, marciare impunite nelle strade, brandendo manganelli od innalzando i ritratti di Marx e Lenin, precedentemente trafugati nelle sedi assalite ed ora osteggiati come bottini di guerra prima di essere distrutti.
E quando Mussolini, nella mattina del 30 ottobre, era giunto nella capitale da Milano, dove si era rifugiato in attesa che gli eventi culminassero, il fotografo aveva ritratto il futuro duce mentre posava insieme ai quadrumviri, cercando così di inscenare una propria partecipazione epica a quelle giornate, nonostante nella realtà per lui, come ha scritto negli anni Mack Smith, la marcia su Roma «non fu che un viaggio in treno in risposta ad un esplicito invito del sovrano» (2); o per usare le parole di Monelli, «fu una comoda corsa in carrozza-letti, con ferrovieri ossequienti, e due mazzi di rose nel lavandino; e folle di fascisti plaudenti alle stazioni, e addirittura un trionfo da Civitavecchia in giù; vestito di scuro, la camicia nera sotto la giacchetta, e un modesto impermeabile.» (3)
Quella non era la prima volta che Porry-Pastorel ritraeva Mussolini. Era stato sempre lui, infatti, a fotografare l'arresto di Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915, ritraendo il futuro duce mentre veniva strattonato e portato via per il colletto del cappotto dai poliziotti intervenuti per sedare la manifestazione. 
Una fotografia che fu pubblicata sulla prima pagina del Giornale d'Italia e che Mussolini sembrava non avesse mai perdonato al fotografo.
Proprio a Porry-Pastorel si era rivolta Velia Titta, la moglie di Matteotti, quando una mattina di giugno si era recata presso lo studio Vedo per commissionargli un reportage privato che documentasse le indagini concernenti l'onorevole rapito, facendosi prima assicurare che tutte le fotografie scattate non sarebbero state inviate ai giornali. (4)
E Porry-Pastorel iniziò a percorrere Roma e le campagne del Lazio sopra di un furgone da lui stesso attrezzato come una camera oscura, per realizzare quel delicato reportage.
Quando la mattina del 27 giugno, Matteotti fu commemorato con dieci minuti di raccoglimento in tutte le città, Porry-Pastorel fotografò le persone che accorrevano sul lungotevere Arnaldo da Brescia, luogo dove era avvenuto il rapimento, lasciando, a testimonianza di quel cordoglio unanime che animò la popolazione, la fotografia che ritraeva una giovane madre inginocchiata mentre osservava il proprio figlio piccolo posare un fiore accanto alle corone deposte sotto una croce color vermiglio, che una mano ignota aveva tracciato sul parapetto ad indicare il «sito del martirio» ed attorno a cui «crebbe una selva di fiori e candele.» (5)
Durante quelle settimane, Porry-Pastorel produsse «decine di scatti rubati, eccezionali per contenuto informativo, di un dinamismo sconosciuto al foto-giornalismo coevo, tranne ai grandi pionieri.» (6)
Egli «fotografò le macchine coi magistrati e i carabinieri» che correvano «sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata» che qualche giorno prima qualcuno aveva deposto nelle vicinanze della fossa forse proprio per indirizzare il ritrovamento, «il recupero pietoso della salma, i leader socialisti Turati e Treves convocati per il riconoscimento, la simulazione giudiziaria del rapimento, i ritratti dei testimoni», uno spazzino e due ragazzi che giocando per strada avevano assistito all'aggressione ed avevano identificato tramite la targa la Lancia guidata da Volpi e Dumini che era stata usata per il rapimento e dentro cui era maturato il brutale omicidio.
Se «alcune immagini apparvero nei giornali antifascisti dell'epoca», l'intera sequenza delle fotografie, tuttavia, fu raccolta dalla moglie Velia in un album «istoriato d'oro» e così custodito dagli eredi. (7)


Note:


(1) Vedi Canali M, Quel delitto che sconvolse l'Italia, in Diario di Repubblica, la Repubblica del 17 aprile 2004, pag. 41.
(2) Vedi Mack Smith D., Storia d'Italia dal 1861 al 1997, pag. 431.
(3) Vedi Monelli P., La marcia su Roma, in Storia Illustrata, n. 179, Ottobre 1972, pag. 21.
(4) Vedi Colasanti V., Scatto matto. La stravagante vita di Adolfo Porry-Pastorel, il padre dei fotoreporter italiani.
(5) Vedi Colasanti V., Scatto matto, op. cit.; Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia. Un reportage racconta, in Diario di Repubblica, la Repubblica del 17 aprile 2004, pp. 42-43.
(6) Vedi Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia, op. cit., pp. 42-43.
(7) Vedi Smargiassi M., L'uomo, il mito, la storia, op. cit.; Smargiassi M., Fotografo Ovunque Tutto, in La Domenica di Repubblica, n. 418, 10 marzo 2013, pp. 34-35; Caretti S., Il delitto Matteotti. Storia e memoria.